Capire cosa c’è dietro una presa di posizione, dietro una affermazione, mi sembra uno sforzo che va fatto. Vale la pena conoscere bene il soggetto che esprime un determinato contenuto per evitare di fraintenderlo, distorcendo la sua logica per farla coincidere con la mia logica. Ci può essere sempre una mia “pre-comprensione” che fa da filtro e non mi fa leggere bene quanto mi viene comunicato. Per capire correttamente il messaggio che mi viene da un altro, devo sapere chi è, qual è l’universo di significati, vissuti, idee e valori che lo portano a scegliere determinate parole per esplicitare i messaggi che poi lancia attraverso discorsi e scritti. Alla domanda, pur legittima: “cosa dice?”, forse bisogna sovrapporne un’altra: “cosa mi vuole dire?”

La comunicazione cioè non è un fatto “oggettivo”, meramente verbale, di subitanea evidenza. Probabilmente la comunicazione è un fatto molto più complesso, strutturato, che mette in relazione mondi diversi, soggetti diversi. Questa complessità può dar luogo a brutti fraintendimenti in tutti i campi del pensiero umano. Per esempio, parlando di scienza, potevano mai capirsi Galileo Galilei e le gerarchie ecclesiastiche che si esprimevano partendo da presupposti del tutto differenti? Non solo, ma nel campo delicatissimo della produzione delle leggi, ci si dovrebbe chiedere: qual è l’intenzione del legislatore ? Qual è il bene che quella legge vuole preservare? E nel campo della morale: che significano (cioè di che cosa è segno) quella norma o quell’imperativo?

Non sembri una brutta parola, ma insomma: l’ermeneutica è una cosa seria, da esercitare in ogni ambiente della comunicazione. Sennò è come parlare tra sordomuti e ognuno capisce a partire da se stesso senza comprendere chi ha parlato e per dirmi che cosa. Se le cose stanno così, allora i tempi che viviamo non sono propizi per esprimersi e capire chi ci parla. I mezzi di comunicazione di massa saranno magari buoni per parlare alle masse, ma il popolo (e ciascuno di noi) non può identificarsi con la massa. La massificazione è la morte della comunicazione e, guarda caso, dopo decenni di comunicazioni di massa pare che non abbiamo più nulla da dirci, neanche tra marito e moglie. E se qualcuno osa dire una cosa che la massa non dice si autocondanna all’insignificanza.

 Non solo. Vi ricordate nel secolo scorso? Si ragionava a colpi di ideologia. La gente era esentata dalle idee personali e doveva solo dichiarare di essere di destra o di sinistra o democristiana. Bastava conoscere l’ideologia di appartenenza e già si presumeva di capire il senso di ogni parola che uno pronunciava. L’ombra della bandiera ti avvolgeva e ben intruppati si marciava, liberati dalla fatica di essere e di pensare. E in ambito religioso? Beh, se seguivi i dogmi e facevi sesso secondo la santa romana chiesa eri bravo, viceversa eri in peccato e l’inferno era già pronto ad accoglierti. L’obbedienza la virtù massima, anzi l’unica.

 Mi vorrei avventurare a dire qualcosa in un campo oggi molto controverso, dove è in gioco una componente fondamentale del vivere umano: l’affettività. L’affettività in quel mondo detto “dell’omosessualità”. I fautori di posizioni diverse se ne dicono di tutti i colori, si lanciano reciproche accuse di ottusità o disonestà intellettuale o bigottismo. Si parla di disordine morale. Si proclama l’intangibilità della libertà nelle scelte personali. Si esige il riconoscimento nelle leggi di ciò che viene visto come un diritto della persona. Il confronto è gridato, le diverse ragioni vengono usate come clave per spaccare la testa a chi la pensa diversamente. Si lanciano anatemi e si ergono muri di scomuniche incrociate. Neanche il tempo che tu esprimi la tua opinione e subito diventi “l’amico” oppure “il nemico”.  Io vi confesso che le idee molto chiare non ce le ho. D’altra parte non aiuta molto l’atmosfera da guerra civile. E neanche mi piace il continuo ricorso ad una ipotetica “Europa” eletta a metro di giudizio per capire cosa è valido e moderno e cosa è vecchio e decadente. Ho troppa stima per le persone che appartengono al mondo gay e tra cui ho amici carissimi per infilarmi anch’io nella cacofonia generale.

In modo semplice, a mo’ di domanda, desideroso di una discussione normale, vedrò di dire ciò sento dentro di me. Sono un credente e un prete. La bibbia in generale e i vangeli in particolare mi hanno dato i fondamenti delle mie convinzioni. Ecco perché credo che Dio ci ha creati per essere felici. La felicità e il ben – essere sono diritti fondamentali di ognuno. Ogni persona deve poterli perseguire. Inoltre, se uno dice che cerca Dio con cuore sincero, allora dirà anche necessariamente che cerca l’uomo (se stesso, l’altro) con cuore sincero: senza giudizi, senza pre-giudizi, senza strumentalizzazioni, senza asservimenti.

La bibbia mi ha insegnato che l’uomo è l’interfaccia di Dio (è creato a sua immagine e somiglianza, Gesù si è identificato con l’uomo, privilegiando assolutamente gli ultimi, gli scartati). E allora, chi sono io (disse papa Francesco) per giudicare una persona gay che cerca Dio, vuole vivere la sua vita di credente, che vuole costruire la sua felicità?  “Ma a messa si possono fare la comunione?”, mi domandano. Questa è una decisione che riguarda la sfera della propria coscienza e nessuno vi può avere accesso e se si presentano davanti all’altare io gli do il pane della comunione. La liceità o meno di questo gesto riguarda la coscienza di ciascuno. Mai una volta ho letto nei vangeli che Gesù ha prevaricato l’intimo sentire di qualcuno. Mai.

Se ritengono che una vita di coppia è ciò che ne appaga la sfera affettiva, se sentono di amarsi e di farsi carico l’uno dell’altro nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, cosa impedisce che Dio li benedica? Cosa? Forse dobbiamo ancora imparare a guardarci con gli occhi del cuore. Forse dovremmo smetterla di prenderci a legnate, a colpi di “verità” e sentenze. La persona viene prima di tutto. È valore fontale! E in ogni caso, che c’entra la chiesa con lo Stato? Lo Stato ha il dovere di tutelare tutti i suoi cittadini in nome della loro libertà e della loro ricerca di benessere. Le coppie gay devono essere allora riconosciute e godere di quei diritti che ne favoriscano il buon vivere (ad es. concorrere per una casa popolare). Un buon governo deve leggere la realtà dei suoi cittadini e legiferare davvero laicamente, al di fuori da appartenenze confessionali o ideologiche.

Padre Carlo D’Antoni –ilmegafono.org