Circa un secolo fa, al grande archeologo Paolo Orsi, nel suo lungo impegno in Sicilia, attraverso la sua instancabile attività di ricerca e di scavi, che riportarono alla luce le splendide vestigia archeologiche e degli insediamenti preeellenici di numerosi siti dell’isola (da Pantalica a Gela, a Centuripe), non sfuggì, come ricordano autorevoli studiosi, la grettezza delle classi dirigenti del tempo, rinchiuse nel puro perseguimento dei loro interessi particolari. Oggi, in condizioni storiche profondamente mutate, questa condizione persiste ed è resa ancora più intollerabile dal fatto che si fonda sull’uso spregiudicato di regole democratiche. Mentre la società siciliana, nelle componenti più consapevoli e culturalmente non asservite, esprime istanze di cambiamento, il rispetto della sua vocazione ad uno sviluppo ecosostenibile e il ripudio delle consorterie dove illegalità e affari convivono, le centrali del potere politico ed economico perseguono invece obiettivi contrari.

L’assalto dei petrolieri al territorio e al mare, ai quali il governo Crocetta e la sua maggioranza hanno aperto le porte consegnando le chiavi d’ingresso dell’isola, è la riaffermazione di una concezione padronale del potere, una scelta ostile alle aspirazioni legittime delle comunità e di larga parte delle istituzioni e dei ceti produttivi locali. Crocetta, come Renzi, fautore della nuova frontiera di delegittimazione della partecipazione dei cittadini alle scelte di sviluppo, ha deciso di avviare un processo anacronistico e denso di pericoli immediati e futuri per la vita e l’ambiente dell’intera Sicilia, con la totale complicità di un partito come il Pd, malato di una fallimentare logica industriale, e di un movimento sindacale che, per scelte corporative e di pura sopravvivenza, sembra rispolverare gli antichi slogan delle orde populistiche: “meglio morire di fumo che di fame”.

Nessun rispetto per le analitiche e fondate obiezioni delle associazioni ambientaliste, di Greenpeace e di Legambiente, sulla inconsistenza degli eventuali giacimenti di energie fossili e sul disastro che le attività di ricerca e di estrazione produrrebbero nell’ecosistema marino e nell’equilibrio naturale delle aree costiere e dell’entroterra. Totale indifferenza per i rischi di contaminazione delle falde acquifere, per la compromissione del patrimonio storico e paesaggistico, per la desertificazione dei terreni agricoli e l’inquinamento dell’aria e della terra. E ancora, come è stato più volte documentato, nessuna seria valutazione dei fenomeni di subsidenza e di elevati pericoli che potrebbero essere generati da attività di prospezione ad alto impatto esplosivo (air gun) in mare e dalla selva di trivelle che si prospetta di mettere in funzione in un’area geografica ad elevato rischio simico e con una diffusa presenza nel sottosuolo di fenomeni estesi di vulcanismo latente.

Le proteste delle comunità e dei movimenti hanno prodotto un primo risultato: la decisione della commissione ambiente dell’Ars di impugnare, davanti alla Corte Costituzionale, l’art. 38 della legge 164/14 (ex decreto Sblocca Italia). Una decisione che, va riconosciuto, è stata frutto dell’impegno tenace dei rappresentanti del Movimento 5 stelle, ma che ha visto la diserzione dei rappresentanti del Pd. Come è prevedibile, il 9 dicembre prossimo, nel voto in aula, all’Assemblea regionale, si assisterà al pieno ricompattamento dei consiglieri regionali del Pd e della maggioranza che sostiene Crocetta per annullare questa scelta importante. Ci sarà ancora il presidio e la protesta, a Palazzo dei Normanni, dei comitati No-triv e di tutte le espressioni delle comunità siciliane che non intendono subire le nefaste conseguenze del patto scellerato con i petrolieri.

Una reazione che si sviluppa in tante parti d’Italia, che ha avuto momenti di forte mobilitazioni in Basilicata, ma che non è ancora sufficiente a cambiare il corso delle cose. Le contraddizioni in Sicilia sono enormi. I fermenti positivi che coinvolgono parti consapevoli di cittadini, intellettuali, uomini delle istituzioni locali, associazioni si scontrano ancora con un retaggio antico di un popolo, come quello siciliano che, pur possedendo grandi energie, non ha un comune sentire e appare frazionato e diviso. Sono significativi alcuni esempi. Mentre il dirigente della Sovrintendenza del Mare, Sebastiano Tusa, denuncia i rischi gravissimi che le attività di ricerca ed estrazione nel Canale di Sicilia provocherebbero per la sopravvivenza delle biodiversità e per il sottosuolo, la sovrintendente di Ragusa, Rosalba Panvini, con una motivazione incredibile, dà parere positivo alle attività esplorative della Irminio srl, nell’area tra Ragusa e Scicli, inserita nel piano paesaggistico regionale e in un territorio ricompreso nei siti Unesco, come patrimonio dell’Umanità.

A Palermo, un sindacalista degno di stima come Landini, nel corso della manifestazione del 27 novembre scorso si è dichiarato favorevole alle nuove trivellazioni in Sicilia, affermando che con le nuove tecnologie si può mantenere un equilibrio ambientale. Un’affermazione generica e superficiale, frutto di una scarsa conoscenza dei gravi fenomeni di dissesto e di devastazione che questa scelta determinerebbe in Sicilia. Lo stesso vale a Siracusa per i sostenitori della costruzione di una seconda piattaforma al largo di Pozzallo (la Vega B), politici e sindacalisti che pompano su possibili centinaia di posti di lavoro (a termine) per l’eventuale costruzione della struttura, tacendo sulla reale natura del progetto Eni-Edison, forse non avendo neanche letto il progetto presentato dalle società per la valutazione di impatto ambientale.

Che importa che sia prevista la perforazione di circa 18 pozzi, che siano previste condotte di collegamento sottomarine tra le due piattaforme, che i fondali presentino problemi di criticità, che il petrolio bituminoso avrà bisogno di inquinanti impianti di desoldorazione. Non interessa sapere che le caratteristiche costruttive della Vega B siano molto diverse da quella già esistente e che solo porzioni di lavoro potrebbero essere realizzate a Siracusa. Ma ciò che è più grave è la mancanza assoluta di responsabilità sui possibili disastri che questa nuova piovra petrolifera potrebbe determinare. Rimane solo una possibilità: che le popolazioni che stanno per essere investiste da questo imminente temporale corrano ai ripari e si sollevino contro chi vuole avvelenare il loro futuro.

Salvatore Perna –ilmegafono.org