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Oggi inizia l’anno scolastico. Ricomincia quel quotidiano confronto tra chi insegna e chi apprende. Un meccanismo automatico che si ripete costantemente, a tal punto da risultare un evento quasi naturale sul quale non ha senso soffermarsi. E invece c’è assoluto bisogno di farlo. Così voglio parlare a voi, studenti e insegnanti della scuola pubblica. Voglio farvi i miei migliori auguri, ma con sincerità, non mischiandomi con l’ipocrisia di quei tanti che oggi vi indirizzano messaggi di incoraggiamento e saluto, dopo aver applaudito o fiancheggiato chi ha firmato più volte la distruzione della vostra istruzione.

Posso garantire di non aver mai battuto le mani o sospinto le penne di questi impostori, posso confermare di essere sceso in piazza, a fianco studenti e insegnanti, anche quando ormai studente non lo ero più da un po’. Perché l’ho fatto? Perché ho sempre creduto che l’istruzione pubblica debba essere difesa come patrimonio di un Paese e che per far ciò bisogna essere tutti uniti, perché siamo tutti coinvolti, anche quelli per cui i banchi e le aule sono solo un ricordo. E poi, ci saranno i nostri figli e a loro, che non sono ancora nati, dobbiamo pensarci noi, adesso, perché ciò che troveranno sarà ciò che noi avremo costruito. E se la casa è a rischio di crollo, le generazioni che verranno non potranno non detestarci. Avranno ragione, purtroppo.

Allora, con la massima sincerità auguro a voi, insegnanti, di resistere e lottare, di continuare a formare quelli che sono prima di tutto cittadini, di lavorare al meglio, nonostante le condizioni difficili, i tagli, le strutture carenti, le precarietà infinite. So bene quanto impegno ci mettete, più per la passione che per uno stipendio assolutamente normale. Non vi abbattono le critiche dei politici o dei ministri di turno né le ottusità di alcuni dirigenti, né le difficoltà di una società e di modelli familiari che lasciano soli i ragazzi, ai quali cercate di indicare una strada. Siete diventati, vostro malgrado, degli eroi civili di cui nessuno parlerà mai, perché gli inetti, le mele marce faranno sempre più notizia di voi, che quella marcia inettitudine la combattete anche al vostro interno.

Auguro anche a voi, soprattutto a voi, ragazze e ragazzi, bambine e bambini, di godere il meglio di questo percorso formativo che comincia o ricomincia. Aprite le porte della vostra mente e accogliete gli insegnamenti che vi riguardano, perché vi torneranno sempre utili. So che è difficile capirlo quando si è tra i banchi, quando lo studio sembra un mattone che ostacola il tempo libero e la bellezza degli anni spensierati. Ma provate per un attimo ad ascoltare i messaggi di libertà che si trovano piantati tra le righe di un libro di letteratura o di storia o di arte o di filosofia, provate a comprendere l’utilità razionale della logica matematica, che vi aprirà il cervello e lo arricchirà di metodo. Ne rimarrete stupiti e incantati. Alcuni di voi mi diranno (come mi è capitato incontrandovi) che amano studiare ma che sanno già che non servirà a nulla, perché questo Paese non premia lo studio. Vero. Vi risponderò che avete ragione. Non vi accuserò dicendovi che siete in cerca di alibi, che siete generazioni colpevoli e sfaticate. Però vi dirò anche che dovete guardare più avanti dei vostri orizzonti e che, se non ci riuscite, è proprio perché avete ancora bisogno di apprendere.

Questo Paese, lo so, non punta sulla cultura, né sull’istruzione, non lo fa più da anni, molti anni. Non incoraggia il sapere, la competenza, il merito, guarda come appestati gli intellettuali, li ostracizza, li accantona, così come esecra il sapere votato all’impegno civile. Se un ragazzo, adolescente o meno, si impegna, se si pone delle domande sul mondo e prova a parlare, a discutere di cose meno frivole dell’amore perduto o trovato, del gossip da cortile, delle ricette o delle fette di prosciutto che abbondano in una tv allergica alla cultura, è considerato noioso, pesante, “troppo serio”. Se poi questo suo impegno lo porterà nel vivere quotidiano e nella lotta contro le ingiustizie, allora diventerà rompipalle o scassaminchia. In questo caso arriverà perfino a rischiare di essere isolato, minacciato o ammazzato.

Direte: “ma quindi non vale la pena di studiare?” “Altroché! Vale ancora di più!”, vi risponderei. Perché anche se questa Italia sgangherata non vi premia, il vostro sapere vince comunque, in quanto vi garantisce uno dei beni più preziosi al mondo: la libertà. E libertà vuol dire dignità. Significa avere la schiena dritta e distinguersi dalla massa che corre forsennata e a spintoni verso la propria prigione, come i chicchi di caffè dentro a un macinino (a proposito, mi auguro che vi capiti di studiare Gioacchino Belli). Significa superare le vostre paure, imparare a volare e ad osservare fieri il paesaggio ampio dei vostri orizzonti, dove poter respirare aria pura ogni volta che lo vogliate. E troverete anche il modo di farvi ascoltare, quantomeno ne avrete i mezzi e le possibilità, magari di mettere un’impronta sulla vita della vostra città, regione, nazione.

Ve lo auguro. Vi auguro di studiare e di approfondire il senso di ciò che studiate. Di andare oltre le nozioni, di trovare insegnanti capaci (ne incontrerete di sicuro) di incuriosirvi, di aprirvi la testa e infilarci la realtà che viene dai classici, dai grandi pensatori, dai grandi artisti, dai grandi matematici. Vi auguro di arrivare al traguardo del diploma e di diplomarvi in umanità e cultura. Ne abbiamo bisogno. Tutti. Siete una speranza che non coltiviamo a dovere. Ma questa è una costante di ogni generazione italiana. Dovete farcela anche per questo. Dovete vincere la sfida. Dobbiamo vincerla insieme a voi.