La scuola Diaz e la caserma Bolzaneto, due luoghi un tempo normali che il 21 luglio 2001, durante il G8 di Genova, sono diventati teatri di orrore e ingiustizia, simboli vergognosi di un buio democratico che ancora oggi ci portiamo dietro. Qualche giorno fa, infatti, la Corte Europea dei diritti umani, riunita a Strasburgo, ha condannato l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Convenzione sui diritti dell’uomo, in cui si afferma che “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. La decisione della Corte è stata presa in merito al ricorso presentato da Arnaldo Cestaro, uno dei cittadini che dormivano all’interno della scuola Diaz nella notte in cui oltre cento tra poliziotti e carabinieri fecero irruzione massacrando violentemente e senza alcuna motivazione chiunque si trovasse lì. A Cestaro, che aveva all’epoca 62 anni, vennero rotti un braccio, una gamba e dieci costole, fratture di cui ancora oggi paga le conseguenze.

Furono più di sessanta i feriti ricoverati in ospedale, tra cui alcuni gravi, in prognosi riservata e perfino in coma. Fu un miracolo che non ci scappò il morto, che si sarebbe aggiunto a Carlo Giuliani, giovane ucciso poche ore prima dalla pistola di un carabiniere. Quelli che non finirono in ospedale vennero fermati e portati, in gran parte, presso la caserma di Bolzaneto, che fungeva da centro di identificazione e detenzione. L’incubo, pertanto, non era ancora finito, non si era dissolto con la fine del blitz e dei pestaggi da parte di uomini in divisa, l’orrore non si era ancora saziato con il sangue che sgorgava dalle facce e dalle teste di gente pacifica che non aveva commesso alcun reato né opposto resistenza: Bolzaneto divenne la prosecuzione di quell’incubo.

Un altro luogo di tortura compiuta dallo Stato, da chi dovrebbe tutelare diritti e garantire sicurezza e, invece, in quelle notti di terrore, mostrò tutto il repertorio fascista che è ancora purtroppo ben presente nel nostro Paese: umiliazioni, violenze fisiche e psicologiche, minacce, molestie, insulti, pratiche estranee ad uno Stato di diritto, violazioni di qualsiasi principio giuridico a tutela di un fermato. La Corte ci ha condannato per i fatti della scuola Diaz, per le torture compiute da poliziotti e carabinieri, per l’impunità che la legge italiana ha regalato ai responsabili, una impunità legata alla scarsa (diciamo così) collaborazione delle forze dell’ordine, ma soprattutto, secondo i giudici di Strasburgo, alla non previsione, nella nostra legislazione penale, del reato di tortura. Un reato sulla cui introduzione siamo in imbarazzante ritardo.

La Corte, dunque, ha avvisato l’Italia, l’ha punita, l’ha costretta a vergognarsi per aver consentito tutto ciò e per non aver predisposto i mezzi necessari a impedire che i colpevoli la passassero liscia facendo perfino carriera. Tortura. Una parola tremenda che richiama altri periodi e contesti nei quali la democrazia non c’era, non si era né formata né sviluppata nel tempo, a dimostrazione di come certi mostri e certi orrori possano tornare in ogni istante, anche all’interno di un sistema che ufficialmente li ripudia. Il segretario del Sap (Sindacato autonomo di polizia), Tonelli, non ha perso l’occasione di tacere e ha definito “eccessivo” parlare di tortura. Eccessivo. Sarebbe bello sapere da lui come definirebbe, allora, quella che un suo collega entrato alla Diaz ha descritto come una “macelleria messicana”, un pestaggio di gruppo contro donne e uomini inermi che stanno dormendo e che vengono svegliati da calci, pugni, sputi, manganellate in testa, sull’addome, in faccia, sugli arti, sulla schiena.

Oppure capire se non è tortura costringere le persone a stare in piedi per ore e ore, ad assumere con il corpo posizioni umilianti (il cigno, la ballerina), ad abbaiare ed essere insultate con minacce e offese di natura politica e sessuale, ad essere schiaffeggiate e a lasciarsi strappare con violenza i piercing anche dalle parti intime. O ancora se non è tortura utilizzare le infermerie come luoghi di umiliazione, obbligare le donne a spogliarsi, a fare piroette davanti ad agenti che fanno commenti osceni. Questi episodi non sono invenzioni o supposizioni, ma sono fatti riferiti nel dettaglio dai pubblici ministeri durante il processo. L’Italia ha lasciato che ciò avvenisse nel 2001, quasi sessant’anni dopo la caduta del fascismo e le violenze dei nazisti e dei repubblichini che della tortura facevano ampio uso. Per adesso, la Corte di Strasburgo si è pronunciata sulla Diaz, ma presto dovrà decidere anche sui ricorsi di chi a Bolzaneto ha vissuto un altro inferno.

Agli occhi del mondo risaltano, anni dopo, le vergogne di un Paese che non è mai stato capace di assicurare giustizia piena. Perché la questione va ben al di là degli esecutori e torturatori della Diaz e di Bolzaneto e riguarda anche e soprattutto i mandanti, ossia tutti coloro che hanno gestito politicamente quel G8. Non solo Scajola, Berlusconi, De Gennaro e i vertici delle forze di polizia, ma anche, ad esempio, l’allora vice-presidente del Consiglio, Gianfranco Fini, che su quei fatti ha spesso rilasciato dichiarazioni discutibili e che mai ha saputo chiarire davvero che cosa ci facesse dentro la sala operativa della questura genovese. Quel clima politico di scontro lo ha fomentato volutamente chi governava allora, i responsabili di quei massacri e di quel cortocircuito democratico sono esclusivamente il governo e i vertici militari dell’epoca. 

Sono loro i mandanti delle torture e delle vergogne successive, come i depistaggi, l’alterazione delle prove, le bugie, le reticenze. È chiaro, allora, che l’introduzione del reato di tortura diventa fondamentale per garantire certezza della pena, ma è altrettanto chiaro che ciò non sia comunque sufficiente a scongiurare il ripetersi di certi orrori. Per questo diventa necessaria anche una contemporanea riforma dei corpi di polizia e delle regole di comportamento in occasione di manifestazioni democratiche, con l’introduzione di norme che garantiscano i cittadini e scoraggino i responsabili, rendendo impossibili gli insabbiamenti delle proprie azioni ed eventualmente estromettendoli automaticamente e in perpetuo dal corpo di appartenenza. Bisogna, dunque, risolvere la questione preventivamente, perché il reato di tortura purtroppo agisce dopo, quando le violenze sono già commesse, quando le luci della democrazia sono già state fulminate e i diritti umani sono stati imprigionati dentro un criminoso e inaccettabile black-out.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org