La lunga e incessante battaglia delle comunità locali, dei movimenti No triv e delle associazioni, avviata nell’estate del 2014, contro la scelta devastante del governo Renzi di dare il via libera con il decreto “Sblocca Italia” (convertito nella legge 164 del novembre 2014) ad una politica energetica fondata sulla ricerca e sullo sfruttamento di idrocarburi fossili (concedendo sostanzialmente libertà di trivelle a una miriade di società petrolifere su tutto il territorio nazionale e nelle aree marine), ha prodotto dei risultati importanti anche se non definitivi. I sei quesiti referendari, depositati in Cassazione da dieci regioni italiane per l’abrogazione delle norme del decreto Passera, che consentivano ricerche di estrazioni di gas e petrolio in mare fin dal limite di 5 miglia, e delle norme dello “Sblocca Italia” che estromettevano regioni e comunità locali da ogni decisione sulle scelte energetiche, hanno spinto il governo Renzi a correre ai ripari.

Con tre emendamenti inseriti nella legge di stabilità 2016, il governo è stato costretto a modificare alcune parti normative in materia energetica, per disinnescare il rischio referendum. In particolare, come era stato in parte anticipato sul nostro sito nell’articolo di Veronica Nicotra, le attività petrolifere e quelle di stoccaggio di gas naturale non rivestono più il carattere di strategicità, indifferibilità e urgenza ma vengono considerate di pubblica utilità. Questo punto riconsegna alle regioni e agli enti locali un ruolo attivo dal quale erano state estromesse. Viene eliminato l’aberrante meccanismo di esproprio obbligatorio dei suoli già dalla fase di avvio dell’attività di ricerca degli idrocarburi. Eliminate anche le norme prevaricatorie e accentratrici che permettevano al governo di sostituirsi alle regioni in caso di mancato accordo.

Viene reintrodotto il divieto di attività petrolifere entro le 12 miglia marine, ma la previsione che i permessi e le concessioni già rilasciati non avessero scadenza e fossero validi fino all’esaurimento del giacimento, in netto contrasto con i contenuti del quesito referendario, ha orientato la Cassazione ad ammettere l’iniziativa referendaria: “Abrogazione della norma che consente alle società petrolifere in possesso di permessi già rilasciati di estrarre gas e petrolio senza limiti di tempo”. Tale decisione è stata definitivamente mantenuta nella sentenza della Corte costituzionale del 19 gennaio scorso. I cittadini italiani, dunque, per la prima volta saranno chiamati a esprimere il loro orientamento sulle scelte energetiche, sulla compatibilità tra la logica cinica e predatoria delle trivellazioni e la salvaguardia delle risorse ambientali e delle attività ecosostenibili.

Non è solo assurdo concepire, come ha fatto l’attuale governo, un’indipendenza energetica fondata sulle fonti fossili anziché sulle energie alternative e rinnovabili, ma è cieca e colpevole la sudditanza agli interessi delle lobby del petrolio, pur sapendo che le stime dei giacimenti di idrocarburi esistenti costituirebbero, nella migliore delle ipotesi, solo una modestissima percentuale del fabbisogno nazionale. Il prezzo che dovrebbero pagare i cittadini, le categorie economiche, il patrimonio ambientale e storico, sarebbe incalcolabile. Per questo motivo la consultazione referendaria è solo un primo importante momento per un risveglio collettivo delle coscienze. Nonostante i risultati positivi raggiunti, rimangono tuttavia irrisolti alcuni punti decisivi per mettere ordine sulle scelte di politica energetica, per impedire che si continui a sventrare in modo indiscriminato il territorio. Ė necessario tentare di recuperare i due importanti quesiti referendari non ammessi: la limitazione della durata dei permessi per la ricerca e le estrazioni anche in terraferma (e non solo sul mare come nel caso del quesito ammesso) e il piano delle aree.

La maggioranza parlamentare ha soppresso la norma sul piano delle aree per impedire che la formulazione referendaria ridesse centralità alle scelte della Conferenza Stato-regioni e vietasse il rilascio di permessi e concessioni fino alla definizione del piano. Questo è funzionale al proseguimento di autorizzazioni selvagge e all’aggiramento di vincoli ambientali. Su questi punti sei regioni hanno sollevato il conflitto di attribuzione contro il parlamento e la Cassazione davanti alla Corte costituzionale. Se il ricorso venisse accolto il referendum potrebbe estendersi anche a questi aspetti. Sul piano più generale rimane comunque aperta una durissima battaglia contro i tentativi costanti di mettere le popolazioni di fronte a scelte preoccupanti.

Se è positivo che 27 procedimenti in corso riguardanti aree marine entro le 12 miglia, tra cui Ombrina Mare, sono stati revocati come effetto della modifica determinata dal movimento anti-trivellazioni, il ministero dello Sviluppo Economico continua a sfornare permessi di ricerca, come quello delle Tremiti o come il decreto Spectrum che riguarda circa 30.000 kmq di area marina dall’Emilia Romagna alla Puglia, che interseca aree anche entro le 12 miglia. Nessuna remora, inoltre, del ministero dell’Ambiente a considerare gli effetti distruttivi sull’ecosistema marino della tecnica dell’air gun che verrà utilizzata. Grave è poi la situazione nel Canale di Sicilia, dove i permessi già rilasciati interessano un’ampia zona marina nella quale l’Eni e l’Edison prevedono con il progetto offshore ibleo la messa in funzione di due attività di perforazioni esplorative di sei pozzi di produzione, mentre si profila un nuovo tentativo di assalto nell’area geografica dell’isola di Pantelleria.

Ma è gran parte del territorio siciliano, comprese aree di elevato valore naturalistico e siti inseriti nel patrimonio Unesco, che rischia nuovi assalti distruttivi. Il governo Crocetta, con gli accordi siglati nel giugno 2014 con Eni, Edison e Irminio srl, ha dato piena agibilità alle trivellazioni sulla terraferma. L’azione di opposizione e di contrasto contro queste scelte scellerate continua, come dimostra la grande manifestazione di Licata del 9 febbraio scorso. Il momento referendario, che costituisce il primo straordinario approdo di una estesa partecipazione dei cittadini ad una diversa idea dell’uso delle risorse, ha bisogno di una grande maturazione dell’interesse collettivo delle comunità da contrapporre agli appetiti di famelici interessi privati.

Salvatore Perna –ilmegafono.org