Erano circa le 20 di domenica 17 aprile quando gli abitanti di Borzoli hanno sentito un boato e l’acqua del rio Fegino, in pochi minuti, è diventata nera. A causare tutto ciò è stato il cedimento di un tubo dell’oleodotto della raffineria Iplom che, appunto, si trova a poca distanza dal fiume. L’allarme è stato dato subito e i vigili del fuoco, con l’aiuto di vigili urbani, carabinieri e polizia, hanno approntato e sistemato delle barriere per bloccare la macchia scura. Nonostante il rapido intervento, però, il petrolio era già arrivato al torrente Polcevera. A rendere, poi, la situazione ancora più critica è stato il maltempo del 23 aprile che ha causato un ulteriore cedimento della diga di contenimento. Anche se i soccorsi non sono mancati e in poco tempo la barriera ceduta è stata ricostruita e l’emergenza ambientale sembrava fosse rientrata, lo stato di criticità a Genova rimane.

Il ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, in visita sul luogo dell’incidente, ha definito il fatto un disastro ambientale. La prospettiva, infatti, sarebbe la restituzione di un bene messo in sicurezza il prima possibile sia nell’interesse della popolazione che dell’azienda. Inoltre, ha commentato: “Chi viene in queste zone si rende conto che c’è stato un fatto ambientale di rilievo e io non lo sottovaluto. Il lavoro più difficile, la bonifica, è quello che abbiamo davanti. Non abbassiamo la guardia, continuiamo a lavorare per ripristinare i luoghi. Per quanto riguarda i tempi – ha proseguito – saranno quelli che richiede una bonifica. Sono tempi medi. Oggi è impossibile dire quali siano i danni permanenti. Chi ha sbagliato – ha ribadito il ministro – paghi, ma guai a pensare che sia finita qui. Aspettiamo i risultati della magistratura e poi trarremo le conseguenze”.

Il procuratore capo Francesco Cozzi, che con il sostituto Walter Cotugno sta portando avanti l’inchiesta per disastro ambientale colposo, ha affermato, dopo gli accertamenti effettuati in seguito al sequestro della condotta, che nella pipeline gestita dalla raffineria genovese esistono altri punti critici. Secondo l’accusa della procura, infatti, alla Iplom sapevano già da tre anni che l’oleodotto Multedo-Busalla era in pessime condizioni e che presentava almeno venti punti critici a rischio di esplosione. La criticità e i pericoli rappresentati dall’oleodotto sono contenuti nella documentazione che ha acquisito lo stesso pm recandosi nella sede della raffineria. Realizzata negli anni Sessanta e mai sostituita integralmente, si tratta di una conduttura lunga 22 chilometri e del diametro di 70 centimetri nella quale, dopo l’ultima revisione del 2013, erano stati segnalati dei punti di usura che non sono mai stati riparati.

Alla Iplom ammettono di esserne stati al corrente. “Nel report sono indicati i difetti – conferma Gianfranco Peiretti, responsabile della Sicurezza – sulla base di questi la direzione pianifica gli interventi, mettendo avanti quelli più urgenti, tanto è vero che su quell’oleodotto abbiamo diversi cantieri aperti”.

Ma con il passare dei giorni, si fa sempre più viva l’ipotesi che a provocare la rottura non sia stato uno smottamento. Ovviamente per avere maggiore certezza sull’accaduto l’ultima parola spetta al geologo Alfonso Bellini, uno dei due consulenti nominati dalla Procura della Repubblica. Il professore dovrà valutare se le gabbie di reti e pietre, attualmente situate ai piedi della rottura, siano state posizionate lì come sostegno, oppure siano franate a valle dopo l’apertura della voragine formatasi dopo l’esplosione. L’altro consulente incaricato, invece, è Sandro Osvaldella, ingegnere strutturista, esperto in materiali delle condutture. 

Dopo l’incidente della raffineria, anche Legambiente ha detto la sua, dichiarando innanzitutto che è importante effettuare una verifica a livello nazionale sulle effettive condizioni degli impianti petroliferi presenti lungo la Penisola e sui piani di intervento antinquinamento.

“Oggi le fonti fossili ci presentano il conto, rendendo evidenti i limiti sanitari, ambientali, economici e sociali del loro utilizzo – dichiara Rossella Muroni, presidente nazionale di Legambiente -. L’incidente alla raffineria Iplom dimostra quanto sia necessario e urgente superare al più presto l’utilizzo delle fonti fossili per garantire la convivenza dei cittadini, la loro salute e quella dei sistemi ecologici vitali anche nelle nostre città, con le attività produttive e il lavoro. In Italia, se c’è una fuoriuscita di petrolio da un impianto si minimizza dicendo che la situazione è sotto controllo, dimenticando i danni che un incidente simile causa all’ambiente e all’ecosistema marino – prosegue Muroni -. Inoltre ci si ostina a considerare le vecchie e inquinanti fonti fossili la miglior fonte energetica per il Paese, nonostante il grande crescere delle rinnovabili e gli impegni presi alla Cop21 di Parigi e a New York con la firma degli accordi sul clima”.

L’associazione ambientalista, inoltre, ricorda che nel nostro Paese ci sono molti impianti legati alla lavorazione e allo stoccaggio di petrolio collocati lungo le coste: 73 impianti di depositi di oli minerali distribuiti in tutte le regioni costiere; 11 impianti di raffinazione per un totale lavorato pari a oltre 13 milioni di mc; infine, 8 impianti petrolchimici per un totale di circa 13 milioni di tonnellate di materiale lavorato all’anno. Il nostro mare, dunque, vive costantemente sotto una potenziale minaccia.

Veronica Nicotra -ilmegafono.org