Gli annunci, le aperture, le promesse di una legislazione nuova che permetta di gestire il fenomeno dei rifugiati in maniera più corretta e umana, in questi ultimi tempi, non sono mancati. La realtà, però, nelle periferie del continente, è sempre la stessa, soprattutto per chi viene da quei paesi che non sono al centro di conflitti conosciuti o riconoscibili. Siracusa è terra di approdo, varco di frontiera, appiglio iniziale di una speranza che ha bisogno di forza, tempo e pazienza, e che costa solitudine, paura, ansia e tutto ciò che le burocrazie italiane ed europee sbattono in faccia a chi prova a costruire un nuovo percorso di vita. O di sopravvivenza. A Siracusa, la parrocchia di Bosco Minniti è un luogo di accoglienza volontaria, un portone che si apre sulla strada e lascia entrare chiunque abbia bisogno di ristoro e di umanità. Una scelta per la quale si è attirata molto affetto ma anche molte inimicizie.

In questa parrocchia di periferia, da meno di una settimana hanno trovato riparo 37 migranti, provenienti in gran parte dal Gambia, più alcuni da Senegal, Mali, Burkina Faso e Guinea Conakry. Padre Carlo D’Antoni, il parroco guida di questa piccola chiesa (il quale talvolta collabora con il nostro sito), li ha trovati per strada, presso il parcheggio Talete, mostro di cemento costruito negli anni ’90 lungo il profilo dell’isola di Ortigia. La loro presenza gli era stata segnalata da un’avvocatessa che si occupa di diritti dei migranti. Erano doloranti, avevano ai piedi infradito o scarpe di plastica, avevano camminato a lungo. Venivano da una struttura convenzionata, l’Oasi Don Bosco, un ex albergo sulla provinciale Maremonti, a oltre 35 km da Siracusa. La polizia li aveva cacciati via, con un foglio di espulsione in mano e l’obbligo di raggiungere Fiumicino e lasciare l’Italia. Non sapevano dove andare. Così il portone della chiesa si è spalancato, offrendo materassi, coperte, acqua e cibo. Intanto, il legale ha iniziato a ricostruire la loro vicenda e a presentare i ricorsi.

Già, perché a quanto pare, al di là delle promesse europee, in Italia (e non solo) si continua a fare le stesse cose di sempre. Identificazione, qualche domanda rapida e, se non vieni da zone di guerra manifesta, foglio di espulsione. E via per strada, senza troppi complimenti. Cosa è successo ce lo racconta lo stesso padre Carlo: “Mi hanno raccontato di essere sbarcati in Sicilia a metà settembre. All’arrivo sono stati portati all’Oasi Don Bosco, vicino Palazzolo Acreide, e sono stati identificati. Non gli hanno fatto fare la richiesta di asilo politico. Gli hanno solo chiesto il motivo per cui erano in Italia. Quelli che hanno risposto di essere qui “per lavorare” sono stati classificati come immigrati economici e in quanto tali, in base alla normativa, sono stati dichiarati senza diritto a rimanere, con la consegna del decreto di espulsione con intimazione a lasciare il territorio entro 7 giorni”.

Poi che è successo?

Gli hanno fatto firmare un foglio che loro credevano fosse un documento necessario per regolarizzare la loro posizione, solo successivamente hanno capito di aver firmato invece, per presa visione, il provvedimento di espulsione. A quel punto la polizia li ha buttati fuori dal centro, senza troppa gentilezza.

Cioè?

Stando a quanto raccontano i ragazzi e a quanto hanno dichiarato sui giornali anche gli operatori dell’Oasi Don Bosco, che affermano di essere rimasti scioccati, la polizia li avrebbe trattati male, cacciandoli fisicamente, con spinte e urla, fuori dalla struttura, in piena campagna, con l’obbligo di andarsene via verso Fiumicino. Così, senza sapere cosa fare e dove andare, il gruppo di migranti si è incamminato a piedi lungo la pericolosissima e buia Maremonti e si è diretto a Siracusa. Tra di loro ci sono anche due che si sono dichiarati minorenni. Uno, attraverso l’avvocato, ha già ricevuto il certificato di nascita dal Mali, attestante la sua minore età. Intanto, altri due sono stati mandati via da un’altra struttura, a Melilli, circa due settimane fa. Anche loro asseriscono di essere minorenni e stanno ricorrendo per dimostrarlo. Vorrei ricordare che la legge italiana tutela i minori. Chi ha buttato fuori i minorenni e firmato i loro decreti di espulsione, se verrà dimostrata la minore età dei ragazzi, avrà commesso una grave violazione della legge. Credo che quantomeno bisognerebbe dare ascolto alla parola di chi si dichiara minorenne e fare prima tutte le verifiche del caso e non essere così sbrigativi e superficiali.

Insomma, le cose non cambiano nonostante i tanti proclami e le dimostrazioni di una “ritrovata umanità”…

Bisogna cambiare la legge e adeguarsi se si vuole sul serio che un fenomeno di queste proporzioni venga governato. Mettere le persone per strada, senza un soldo in tasca, senza una busta con un cambio di biancheria, con ai piedi infradito e scarpe di plastica, significa invitarli a vivere per sempre in clandestinità. Così si rischia di metterli in condizione di commettere reati o di subire sopraffazioni. Clandestino chiaramente non è sinonimo di criminale, ma è possibile e anche comprensibile che un disperato, che ha fame e non ha diritti, decida di rubare un melone da un terreno pur di mangiare qualcosa. Così come è possibile che un giorno, nella sua disperazione massima, accetti l’offerta di qualche furbo criminale che lo assolda per spacciare droga. Ancora più probabile è che finisca a rimpinguare l’esercito di schiavi nel mondo del lavoro sommerso. La normativa attuale è un invito a delinquere o a diventare schiavi e la responsabilità oggettiva è dell’Europa, così come dell’Italia. In questo modo si butta la gente nella disperazione. È vergognoso che i nostri capi di Stato, ben lontani dall’essere statisti, non riescano a produrre soluzioni umane e dignitose. Non c’è una cultura del fenomeno, una consapevolezza, ci sono solo le convenienze e gli interessi nazionali che portano i governanti a scegliere una strada piuttosto che un’altra.

Oltre alla legge, poi, dovrebbe forse cambiare anche il modo di porsi nei confronti di queste persone, visto che appena arrivati vengono spesso trattati come fossero delinquenti, non credi?

Facciamo una premessa: anche l’essere umano più criminale ha diritto a essere considerato persona. Gli si può comminare la pena che si vuole per il reato compiuto, ma nessuno deve mancare di rispetto alla sua dignità. Questa è l’essenza della civiltà. Questi ragazzi, che peraltro criminali non sono, sono stati maltrattati dalle forze dell’ordine, cacciati via malamente da una struttura e lasciati allo sbando in mezzo a una strada provinciale. Non sono cani da buttar fuori a bastonate e, alla legittima domanda “ma dove andiamo?”, non si può rispondere “non ci interessa, andate fuori di qui!”. Normale poi che qualcuno, che ha dietro di sé una stanza illuminata e un letto, vedendosi improvvisamente catapultato nell’ignoto, in campagna, con l’intimazione di andare via verso la lontanissima e sconosciuta Fiumicino, si rifiuti di uscire. Non si può parlare di resistenza a pubblico ufficiale, non c’è una ragione per metterli spalle al muro e cacciarli via con le cattive maniere, come hanno raccontato loro e anche gli operatori della struttura.

Di sicuro, ci dovrebbe essere buon senso anche nel compiere un dovere o far rispettare la legge.

Devono smetterla i signori dell’ordine pubblico di fare i loro comodi, di umiliare le persone, perché i diritti esistono e, anche se sappiamo di vivere in tempi da Medioevo, non bisogna ugualmente stancarsi di esigere il rispetto per tutti anche nelle forme. Quando io ho chiesto ai miei ospiti come si chiamavano mi hanno risposto con un numero, perché così venivano identificati! Non c’è rispetto né formale né sostanziale, per carenza delle nostre leggi e per l’assoluta miopia di chi si ritiene “governante”. Parliamo tanto di democrazia, di istituzioni europee, eccetera: tutte balle, tutte cose che nei fatti sono prive di una base reale.

La tua parrocchia si trovava già in emergenza economica, perché nei mesi scorsi ha gestito, come sempre con le proprie forze, l’afflusso di profughi eritrei e siriani che sbarcavano a Siracusa per poi proseguire il viaggio verso l’Europa. Tu stesso hai dovuto chiedere aiuto lanciando un appello sul web. Come state andando avanti? C’è stata risposta a quell’appello?

Ce la stiamo cavando, ho l’ufficio stracolmo di scarpe e vestiti e so che ne arriveranno ancora. Crediamo nella provvidenza e la gente buona si fa avanti. Ad esempio, il banco alimentare, che ci fornisce gran parte dei viveri che distribuiamo alle famiglie italiane indigenti, mi ha promesso una volta alla settimana un altro carico speciale di pasta, riso e altri prodotti freschi. All’appello hanno risposto in molti. Stiamo centellinando le risorse, anche perché i ragazzi hanno bisogno anche di medicine, per via di allergie e dolori articolari che si portano dietro dal viaggio. La solidarietà comunque non manca.

Insomma, Bosco Minniti non si ferma mai e alla fine non rimane mai sola.

Sai, quando ci si toglie gli occhiali della propria piccolezza, dei pregiudizi, della crudeltà di chi identifica le persone non con i nomi ma con i numeri, si riesce a vedere la grande signorilità e l’umanità di questi giovani africani. La loro educazione. Io potrei tranquillamente andarmene fuori in vacanza per un mese, qui funzionerebbe tutto perfettamente. Si sono organizzati, si gestiscono da soli, grazie all’apporto dei dieci ragazzi africani che vivono da più tempo in parrocchia. Gestiscono egregiamente la cucina, la distribuzione dei pasti, la pulizia della casa e la lavanderia. Alla fine riusciamo a cavarcela e ad andare avanti come sempre.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org