È successo ancora, questa volta a due passi dalla mia città, ma il luogo ha poca importanza perché succede ovunque, ogni maledetto giorno, tra i palazzi e le strade di questa Italia spietata, bigotta e asfissiante. È accaduto tra quattro mura, dentro una casa, nel ventre spento di un paesino, uno dei tanti in cui le famiglie, i cortili, le piazze, le scuole diventano patiboli sui quali libertà e diritti finiscono tra le grinfie di centinaia, migliaia di boia tronfi di moralismo e omofobia. Il cappio lo allestiscono per bene, con una corda robusta fatta di sorrisi ignoranti, logiche orride, battute squallide, poi lasciano che sia la vittima, esasperata, a dare l’ultimo strattone verso una morte liberatoria che sancisce il fallimento di tutti noi, dell’educazione, della cultura, della dignità umana, e la vittoria dei carnefici. Ne hanno ucciso un altro. Ne abbiamo ucciso un altro, tutti quanti noi, anche chi si è sempre schierato contro quei boia, stigmatizzando certi modelli e i relativi, insopportabili vocabolari.

Sì, perché quando un ragazzo di sedici anni muore da solo, immerso nel dolore di non poter vivere la propria natura, la propria intima affettività, siamo tutti colpevoli. Dovremmo partire da qui. Dovremmo partire da noi, da quei silenzi di circostanza quando sentiamo usare certe parole per definire, secondo un assurdo schema intriso di falsa morale e precetti religiosi, la natura (proprio così, natura, mettetevelo in testa!) intima, affettiva, sessuale di un essere umano, sulla quale nessuno dovrebbe avere il minimo diritto di sindacare o di esprimere un giudizio. Dobbiamo partire dall’idea di non vivere in pace, di fare la guerra ogni maledetto giorno contro certe parole e certi atteggiamenti crudeli, maleducati, vigliacchi. “Frocio”, “finocchio”, “sodomita”, questo è il triste vocabolario contro cui dobbiamo combattere, senza mai lasciare nemmeno un centimetro di terra a questa mostruosa truppa di aguzzini sanguinari che tagliuzzano l’anima e la sensibilità di ragazzi e ragazze che sono spesso costretti ad aggiungere altra fragilità a quella che già è tipica dell’adolescenza.

Non serve svegliarsi solo quando c’è un corpo a terra. Così come non ha senso accorgersi di chi da anni lotta per i diritti degli omosessuali solo quando il colpo è emotivamente troppo duro per far finta di nulla. Aleandro Rudilosso aveva solo sedici anni e un sogno di libertà, la libertà di vivere la sua vita come tutti quanti i ragazzi e le ragazze della sua età. Il suo nome adesso lo conoscono in tanti, ma di storie come la sua se ne consumano ogni giorno sotto i nostri occhi distratti. Ho letto il suo nome su un giornale on-line, nella tarda serata del 25 settembre. Mi sono infuriato, perché era la notizia di un suicidio sbattuta in prima pagina. Non si conoscevano ancora i motivi, ma solo la giovanissima età del ragazzo. Mi sono infuriato perché c’erano nome e cognome, non le iniziali. L’ho trovato deontologicamente scorretto, sbagliato, disumano. Ho commentato, cosa che non faccio mai, l’articolo richiamando quel giornale al rispetto delle regole, che impongono di tutelare il minore, la sua identità, la privacy sua e della famiglia di fronte a un fatto così enormemente drammatico come il suicidio.

Poi ho avvertito una strana sensazione. Mi sono chiesto perché un ragazzo si fa fuori a sedici anni. Ci ho pensato a lungo quella notte. E la risposta che mi sono dato ha trovato conferma in tutto quello che è emerso dopo. Aleandro Rudilosso è diventato a sue spese un simbolo, ci ha messo di fronte all’orrore che questa società costruisce. Il suo nome, allora, questa volta forse è un bene che sia stato reso noto, perché ci ha consegnato la sua storia e la sua anima. Ci ha raccontato la sua bellissima scrittura, la maturità dei suoi pensieri, ci ha reso eterno il suo volto. Ci ha sbattuto in faccia il fallimento della nostra società indifferente, delle nostre città prigione. Sul suo profilo facebook, si leggono le sue riflessioni, parole che mostrano la sensibilità, il dolore e anche la forza di questo ragazzo assassinato da chi, protetto dal branco stolido di una società ingiusta e ipocrita, ha saputo schiacciare il suo coraggio, stancandolo, umiliandolo.

Omofobia, il marchio velenoso e letale di chi crede che affettività, amore, natura, sessualità possano essere ingabbiati, riempiti di regole, schedati e classificati secondo un ordine di importanza o di ammissibilità. È colpa di questo maledetto maschilismo che domina la società e considera ridicolo tutto ciò che non è violento, che scambia la sensibilità e l’umanità per debolezza e la crudeltà per forza meritevole di rispetto. Un maledetto maschilismo morboso che calpesta quello che c’è nel cuore di ogni persona e contemporaneamente spia nelle stanze da letto di tutti, con il ghigno malvagio di chi si è indebitamente autoproclamato giudice. Tutti ossessionati da una interpretazione distorta di ciò che è natura. Una interpretazione figlia di secoli di oscurantismo religioso, cattolico, musulmano, ebraico, che violenta l’intimità umana, che nei secoli ha prodotto e produce ancora oggi milioni di morti, umiliazioni, torture.

Non vedo differenze tra chi impicca per conto di uno Stato, come avviene tutti i giorni nell’islamico Iran ai danni di giovani omosessuali, e chi mette la corda al collo di un adolescente o gli spalanca le finestre dei piani alti o gli presta le lamette nella cattolica Italia. La stessa Italia nella quale, a Monza, un giovane studente omosessuale, il cui orientamento viene “denunciato” da un compagno di scuola, è stato umiliato dal preside e messo a studiare da solo in corridoio, separato dalla classe. La stessa Italia nella quale il parroco che ha celebrato i funerali di Aleandro si permette di parlare di “colpa”, di dire che Aleandro, morendo, si è liberato della sua “colpa”. Ecco, a quel preside, a quel parroco qualcuno avrebbe dovuto gridare in faccia tutte le colpe di chi contribuisce ogni giorno, nelle chiese, nelle case, nelle scuole, per strada, nei salotti televisivi, nei palazzi istituzionali centrali e locali, a costruire isolamento e morte.

Perché sono anche loro i boia, sono loro le mani che stringono le corde. Sono anche loro che hanno spinto Aleandro a dire basta. Sono loro che hanno seppellito i tanti Aleandro di questo Paese e costruito le numerose tombe di ragazzi meravigliosi che giacciono nei cimiteri delle nostre coscienze. Non abbiamo più tempo per tacere e svegliarci solo quando si spezza un’altra anima, un altro semplice sogno di vita. Dobbiamo lavorare insieme ogni giorno, in ogni centimetro del nostro vissuto, uomini, donne, eterosessuali, omosessuali, in una sola parola esseri umani, per licenziare questi malvagi becchini e spezzare quelle dannate catene prima che diventino nuovamente delle funeste corde.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org