Mettersi ad analizzare tutto quello che non va nel nostro Paese è un lavoro da masochisti, perché guardandosi attorno ci sono davvero pochi motivi per sorridere. Non è solo una questione di crisi economica, anzi la crisi viene spesso usata come un paravento, un alibi per giustificare quelli che invece sono vizi ancestrali, tignose incrostazioni di una storia che, al di là delle fasi economiche, rimane sempre troppo uguale. I problemi sono sempre gli stessi, il sistema presenta le identiche disfunzioni, persino alcuni dei protagonisti negativi sono uguali. Stessi nomi, stesse facce. E anche le lamentele e le loro origini non sono cambiate.

Corruzione, affarismo, mafia, cattiva politica, disservizi, disoccupazione patologica, un welfare sempre più debole, la giustizia diseguale, la burocrazia elefantiaca, sottoculture razziste e neofasciste, il merito schiacciato da logiche tossiche, generazioni senza futuro, il profitto anteposto alla tutela dell’ambiente e alla salute dei cittadini: queste sono solo alcune delle cicatrici che sfregiano il volto dell’Italia. Dovrebbero essere le cose da combattere quotidianamente, le priorità assolute. Eppure il dibattito politico, il racconto dei media, le discussioni tra i cittadini, in gran parte, si disperdono in sciocchezze, in temi sterili e inutili dove il conflitto a prescindere e la distrazione artificiale sono le uniche cose che contano. Non si riesce a scorgere, nemmeno per un attimo, l’interesse collettivo, ossia quell’obiettivo comune verso cui anche la dialettica più accesa alla fine dovrebbe tendere.

Veniamo continuamente attratti e distratti da quelle che sono chiacchiere o dispute da condominio, una valanga ininterrotta di parole usate di proposito per congestionare il dibattito e catalizzare l’attenzione. Se un tema delicato e importante diviene centrale, si fa fatica a trovare qualcuno che di quel tema discuta nel merito, sottraendosi alle schermaglie politiche, agli insulti, alle farneticazioni che tanto piacciono a chi spera di costruire tifoserie e circondarsi di fanatismo, intorbidendo le acque e soffocando il ragionamento.

Così, ad esempio, sulla riforma costituzionale si continua a distrarre il popolo, attraverso le dichiarazioni scientificamente fuori luogo della ministra Boschi, che è stata investita del ruolo di guastatrice. Prima il riferimento a Casa Pound, poi la storia dei veri partigiani e altre ancora probabilmente ne verranno: il primo obiettivo è evitare di entrare nel merito della riforma delle camere e dei rischi che la sua approvazione, unita alla nuova legge elettorale, comporterebbe sulla democrazia. Il secondo obiettivo è screditare chi si schiera contro questo rischio, cercando di difendere un principio saldo della nostra Repubblica, che non può essere sacrificato davanti a logiche di accentramento del potere mascherate da presunte esigenze di stabilità.

Chiaramente, la fazione opposta continua a cascarci e a contrattaccare prendendo a riferimento altri temi, in un infinito batti e ribatti che non aggiunge alcun contributo all’informazione di cui i cittadini necessiterebbero. Si perde solo tempo, dimenticando che il tempo è la variabile fondamentale per la piena comprensione di un referendum. È evidente, inoltre, che le forze in campo sono squilibrate, perché il governo la sua strategia la attua occupando tutti gli spazi possibili, grazie alla sua posizione di dominio e a un panorama mediatico che vive degli slogan e delle frasi a effetto suggerite dagli uffici di comunicazione politica. Non è solo una questione che riguarda il referendum, ma anche altri argomenti, perfino più centrali e urgenti.

Sul lavoro, ad esempio, ormai è esclusivamente una guerra di dati, di tabelle che vengono pubblicate e commentate: solo in quel momento il tema torna a essere centrale, ma soltanto per lanciarsi accuse reciproche, senza che si vada a fondo, che si vada a misurare il reale polso del Paese, la quotidianità dei lavoratori e tutte quelle problematiche che sono vive e che non sono state di certo risolte (diritti, sicurezza, ecc.) da una riforma iniqua come il Jobs Act. Le morti bianche sono il caso esemplare: si muore ogni giorno di lavoro, ma poco importa. Non è la priorità. Se ne parla solo se ne muoiono molti in un unico incidente o soltanto (e brevemente) se si rievoca una strage come quella della ThyssenKrupp.

Stessa cosa per quel che riguarda la lotta alla mafia, divenuta sempre più una carrellata di annunci e promesse, di solidarietà tardive e di interventi ancora più tardivi. Se ne parla per qualche giorno, nel caso in cui accada un fatto drammatico (vedi l’agguato fallito al presidente del Parco dei Nebrodi), dopodiché torna il silenzio. Come se il pericolo fosse scongiurato e la mafia sconfitta. Di questi esempi ce ne sono in ogni ambito, dall’inquinamento (qualcuno ha più sentito parlare di terra dei fuochi?) allo sfruttamento dei migranti (il caporalato fa notizia a intermittenza, ogni cinque anni qualcuno ne parla, poi stop). La politica è troppo presa da altro, dalle accuse reciproche su frasi o atteggiamenti, dalla gara a chi alza di più il livello dello scontro, da una campagna elettorale permanente nella quale l’insulto reciproco ha superato perfino il vecchio totem delle promesse roboanti.

Con buona pace di gran parte di quella stampa che a ogni battuta e colpo di tosse di un qualsiasi esponente politico nostrano (avesse pure il 3%) dedica le aperture e addirittura gli editoriali. Intanto il paese, quello reale, continua a esistere nelle sue battaglie quotidiane, quelle nelle quali incontra i disservizi, la corruzione, la mafia, i veleni tossici che massacrano la salute, le ingiustizie non sanabili, la miseria sociale e tutte quelle cicatrici che sporcano concretamente il volto di un’Italia che per qualcuno, lì in alto, sembra invece non esistere più.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org