Per mesi abbiamo sentito sibilare il silenzio. Nessuna parola, ai piani alti, sull’argomento “mafia” e soprattutto sulla situazione complicata nella quale si trova il sostituto procuratore di Palermo, Nino Di Matteo. Nessuna presa di posizione o espressione di solidarietà davanti alle continue minacce, alle notizie relative al progetto di attentato che lo riguarderebbe. Si è visto solo tanto scetticismo o perfino un crudo e ostile snobismo che ha fatto seguito alle inspiegabili bocciature ai concorsi per l’avanzamento di carriera che avrebbero potuto portare il magistrato alla Dna, spostandolo così da Palermo e riducendo il rischio per la sua incolumità.

In questi giorni è accaduto ancora. Mentre il popolo viene gettato dentro la bagarre referendaria, nella quale poco si parla dei contenuti e tanto degli scenari possibili successivi al voto, una notizia giunge da Palermo e lascia comparire nuovamente i fantasmi di un passato tragico e doloroso. La mafia vuole uccidere Nino Di Matteo e non sembra aver abbandonato l’idea. Questo è quanto emerge da una intercettazione tra un affiliato a cosa nostra e la moglie. I due litigano. L’uomo è arrabbiato con la suocera, rea di aver accompagnato la loro figlioletta a un circolo del tennis (Tc2) in via San Lorenzo. Lo stesso frequentato da Di Matteo. In quel circolo non bisogna andare, la bambina deve stare alla larga da lì. Quel circolo è pericoloso.

Perché? Perché “quello lo devono ammazzare”. Poche parole, ma eloquenti, crude da far gelare il sangue. È l’ennesima conferma: Nino Di Matteo deve morire. E all’interno delle famiglie, evidentemente, lo sanno tutti. Stanno solo valutando come e dove, se al circolo del tennis o per strada o con quell’esplosivo di cui aveva parlato, qualche anno fa, il collaboratore di giustizia Galatolo e che, secondo fonti investigative, potrebbe essere ancora a Palermo proprio per il progetto di attentato. Le indagini sulla trattativa, sulle talpe alla Dda, sulle stragi e su altre vicende buie nella storia dello Stato e della mafia fanno paura. Vanno fermate. Sia Riina che Matteo Messina Denaro (e chissà chi altri, anche fuori da cosa nostra) vogliono che quel giudice smetta di indagare. Vogliono dare il segnale di una organizzazione ancora forte, potente, ricca di complici e coperture, ancora in grado di dominare i propri territori.

La strategia stragista, dunque, sembrerebbe non essere del tutto tramontata e, nonostante i probabili dubbi e le preoccupazioni all’interno dell’organizzazione criminale, sarebbe un’opzione che i vertici mafiosi (e probabilmente non solo loro) sono pronti a mettere in moto. Nell’incertezza e in questa atmosfera angosciante, c’è uno Stato inerte che mostra noncuranza rispetto a tale tragica possibilità. È come se nessuno credesse non solo alle minacce, ma anche a Di Matteo, al suo lavoro e a quello dei suoi colleghi palermitani. Come se chi governa questo Paese, a vari livelli e in vari ambiti, non volesse più guardare al passato, cercare una verità scomoda che probabilmente scatenerebbe un terremoto.

Eppure la classe politica al governo è in gran parte nuova, giovane, si autodefinisce rottamatrice, sempre in antitesi con i predecessori, con il passato. Allora perché questo silenzio, questa timidezza? Perché non occuparsi del caso Di Matteo? Perché non sostenere il suo lavoro e fare in modo che possa compierlo fino in fondo senza rischiare di essere interrotto dal piombo o dal tritolo? Risposte non ne abbiamo, quello che rimane è il trattamento discriminatorio e ostile nei confronti del sostituto procuratore palermitano. Silenzio, indifferenza, un colpevole ritardo nel potenziamento delle strutture e negli strumenti di protezione, la negazione di posti che, per curriculum ed esperienza, gli sarebbero spettati e avrebbero migliorato il suo lavoro e reso più sicura la sua vita.

E dire che Di Matteo non è un protagonista, non compare spesso in tv o sui giornali (cosa che sarebbe peraltro legittima), non si espone troppo perché sa cosa comporterebbe oggi e sa quanto ciò costò in passato a Giovanni Falcone e poi a Paolo Borsellino. Il livore nei confronti dell’operato del giudice è invece preoccupante, perché non viene espresso a parole ma nei fatti, ossia proprio su quel piano degli atti concreti e degli strumenti che sarebbero utili per provare a costruire giustizia e riconsegnare verità a un Paese che ancora guarda a quel pezzo di storia senza trovare una spiegazione completa.

Il procuratore capo palermitano Lo Voi ha scritto al Csm per illustrare la situazione attuale. E il Csm ha convocato Di Matteo a Roma. Si parla di probabile e rapido trasferimento, proprio a quella Dna che finora per concorso gli è stata negata. Adesso, come spiega Miriam Cuccu su Antimafia Duemila (leggi qui), il problema è che la legge non consente il trasferimento d’ufficio (senza concorso) in ruoli che comportano un avanzamento di carriera. L’unica soluzione potrebbe essere un nuovo concorso per cinque posti, ma la partecipazione comporterebbe la rinuncia all’appello al Consiglio di Stato contro la precedente bocciatura, ritenuta assolutamente ingiusta da Di Matteo (e non solo da lui).

Vedremo quali saranno gli sviluppi, ma l’augurio è che il magistrato siciliano ottenga il trasferimento e il posto in Dna, per continuare il proprio lavoro in condizioni di maggiore sicurezza, e che non debba invece subire l’ennesima umiliazione e trovarsi sempre più isolato e sempre più bersaglio. Allo stesso modo, ci auguriamo che il governo, il Quirinale, i vertici della magistratura, l’Anm si muovano, prendano una posizione, rompano questo silenzio rovinoso e umiliante. Sappiano (lo sanno bene) che l’indifferenza e l’ostilità sono armi messe in mano a chi dell’isolamento fa proiettili o esplosivo per eliminare gli isolati.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org