Lisbona, anno 2004, finale dei campionati europei di calcio: al cinquantasettesimo minuto l’attaccante della Grecia, Charisteas, colpisce di testa un pallone proveniente dal calcio d’angolo, anticipando il portiere e segnando il gol della vittoria. I greci, sul cui successo nessuno avrebbe scommesso un soldo, misero in ginocchio un Portogallo pieno di stelle e di talenti come Figo, Cristiano Ronaldo, Rui Costa. Ricordo di aver tifato, lungo tutto il torneo, per la Grecia e per una di quelle favole che solo lo sport sa regalare. Ricordo anche che mia sorella, da sempre innamorata del paese ellenico, mi portò da Creta la maglia (che conservo ancora gelosamente) dell’eroe calcistico del momento, quel Charisteas che prima di quella competizione in pochi conoscevano. Una favola sportiva, dunque, quella di una squadra per la quale milioni di europei (ossia i tifosi delle nazionali che non si erano qualificate o erano state eliminate) simpatizzarono.

Una semplice consuetudine che, a volte, può anche andare oltre il calcio e lo sport. Si pensi al derby tra la granitica Germania Ovest e la povera Germania Est nel 1974, in occasione dei mondiali in terra tedesca. Lo scrittore Francesco Piccolo racconta, nel suo bellissimo libro“Il desiderio di essere come tutti” (Einaudi, 2013), di essere diventato comunista il 22 giugno di quell’anno, al minuto settantasette, quando il centrocampista Jürgen Sparwasser mise a segno l’1-0 con cui i tedeschi orientali sconfissero i padroni di casa dell’Ovest, che poi avrebbero vinto la coppa del mondo. Aveva capito che spontaneamente, con impeto naturale, il suo cuore batteva per i più poveri, per coloro che erano oggettivamente più deboli dei panzer di Beckenbauer, Muller e Hoeneß.

Probabilmente, se al posto di Piccolo ci fosse stato un qualsiasi esponente dell’attuale schieramento socialista europeo, egli avrebbe imprecato, perché per i più deboli non si fa il tifo, ma anzi da loro si pretendono obbedienza e rispetto. Se invece fosse stato Renzi davanti a quella partita, probabilmente avrebbe fatto finta di tifare per l’arbitro, cercando di nascondere in qualche modo la sua passione per i più forti e il suo fastidio per i disobbedienti e per la loro insolenza, la loro protervia nel mettere in rete un pallone decisivo capace di rompere equilibri consolidati. Tornando al gol di Charisteas da cui siamo partiti, sono certo che in tanti all’epoca esultarono, perché quel gol non aveva significati politici, ma era solo la pagina conclusiva di un capolavoro di sport. Oggi, probabilmente, le cose sarebbero differenti, perché la Grecia dà fastidio, rompe, preoccupa.

In questi giorni, tra improvvisati docenti di economia ed europeisti integralisti dell’ultima ora, ne stiamo sentendo davvero tante sulle colpe della Grecia, sulle responsabilità dei suoi governi, sulla debolezza di Tsipras, sui rischi per la tenuta dell’Ue. Poco importa che alcuni tra gli economisti più illustri del pianeta e perfino un ex ministro tedesco come Fischer siano d’accordo con Tsipras e con la sua scelta di non cedere ai diktat della Troika europea. L’autonomia politica e decisionale del governo greco è considerata un corpo estraneo dentro uno scenario europeo fatto di codardia e di deferenza, privo di leader carismatici e di una sinistra che rivendichi ancora la priorità della solidarietà, dello stato sociale, del bene comune. Tsipras diventa così il bersaglio degli euro-egoisti, i quali lo disprezzano, lo rimproverano, lo accusano di populismo, definiscono banalmente la sua Grecia come una nazione parassitaria, che ha truccato i conti, ricevuto aiuti e sperperato soldi senza mai adeguarsi ai processi di riforma richiesti dall’Unione.

Persino l’Italia, ossia quel Paese dove la corruzione regna e dove per anni i fondi europei sono stati succhiati indegnamente e fatti sparire nei meandri di operazioni illegali, si permette il lusso di attaccare i greci. Al di là delle risposte economiche che si possono dare a queste accuse semplicistiche, spesso false e demagogiche, a tutti questi saggi osservatori dall’alto senso morale sfugge purtroppo una questione a mio avviso centrale: la sovranità dello Stato. Un concetto fondamentale, strettamente connesso alla democrazia, alla dignità di uno Stato e al diritto del suo popolo di non pagare il prezzo imposto unilateralmente da una istituzione, l’Unione Europea, che si fonda sul potere centrale e politico di un paio di nazioni forti (Germania e Francia su tutti) che se ne infischiano delle difficoltà degli altri. Con quale diritto si pretende che la Grecia compia atti di macelleria sociale che mettano in ginocchio i cittadini?

Altro elemento di chiarezza che si tende a tener nascosto: Tsipras, a differenza delle forze populiste e neofasciste che sono contro l’Euro a prescindere e che stanno vergognosamente cercando di accostarsi a Syriza, non vorrebbe assolutamente l’exit della Grecia, ma soltanto una ridefinizione del concetto di sovranità all’interno dell’Unione. Sin dalla campagna elettorale che ha preceduto la sua elezione il premier ellenico ha sempre parlato di rinegoziazione e della necessità di rivedere la fisionomia di un’Europa che, alla solidarietà tra i popoli, oggi preferisce l’egoismo della finanza. Syriza pone una questione politica, prima che economica, ed è questo che dà realmente fastidio. Il debito greco non è un’urgenza per i creditori, il vero obiettivo è mettere alle strette politicamente la Grecia, per evitare che il modello Tsipras possa propagarsi, magari con la vittoria di Podemos in Spagna, mettendo in crisi l’attuale concezione dell’Europa e gli interessi delle oligarchie che ne tengono il timone.

È una guerra di nervi, una battaglia psicologica, con una posta in gioco elevatissima. Tsipras rappresenta anche una speranza per la ricostruzione di una nuova visione sociale, da sinistra, che pretenda un’Europa più equa e che potrebbe così offuscare l’antieuropeismo ideologico e nocivo dei movimenti di estrema destra. Se la sua linea fallisce, a causa anche della strategia della paura e delle ingerenze ai limiti del golpe da parte della Troika nella politica greca, si rischia un effetto domino pericolosissimo che potrebbe dare punti e vantaggi a neonazisti e populismi di quart’ordine. Anche in Italia. Non è più una questione romantica o sportiva, non siamo dentro a una favola, ma nel pieno di un tempo buio nel quale, se veramente vogliamo cambiare le cose, abbiamo bisogno di uno shock di dignità che rimetta tutto in discussione. Ecco perché, pensando a quel gol di Charisteas, non posso che sperare che la Grecia faccia ancora il miracolo e che Tsipras, accerchiato dentro e fuori dai confini ellenici, alla fine abbia ragione e vinca la sua partita. Per la Grecia e per tutti noi.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org