Armadi pieni e strapieni di vestiti. È difficile non trovare guardaroba sempre rimodernati e spesso con indumenti che mettiamo solo una volta e poi lasciamo lì o buttiamo via senza pensarci due volte perché passano di moda o semplicemente perché non ci piacciono più. Sembrerebbe tutto normale, ma in realtà dietro queste scelte di stile si nasconde un pericolo per l’ambiente. Pare, infatti, che nella classifica delle industrie più inquinanti quella tessile si trovi al secondo posto dietro solo al petrolio. Ad aumentare questo inquinamento sicuramente il “fast fashion”, cioè la possibilità di rinnovare il vestiario a ogni cambio di stagione, grazie ai prezzi molto bassi.

Dunque, se la tendenza del momento è quella di cambiare continuamente vestiti, c’è chi vorrebbe, come lo stilista inglese, Tom Cridland, tornare a produrre abiti che durano 30 anni. Secondo uno studio McKinsey, effettuato nell’arco di tempo tra il 1995 e il 2014, il prezzo dei capi di abbigliamento è cresciuto molto più lentamente di quello di tutti gli altri beni di consumo. Addirittura, nel Regno Unito, nonostante un aumento del 49% del prezzo medio delle merci, quello del vestiario è diminuito invece del 53%.

Greenpeace Germania, inoltre, ha realizzato una ricerca in cui emerge che la produzione di abiti è raddoppiata dal 2000 al 2014, constatando che un consumatore medio riesce ad acquistare fino al 60 per cento in più di capi ogni anno, ma dimezzando la loro durata rispetto a 15 anni fa, con la conseguente formazione di montagne di rifiuti. Se invece prendiamo in considerazione l’Italia, le stime della rete Mercatino mostrano che, a fronte di circa 2,2 milioni di indumenti e accessori di seconda mano venduti nei loro punti vendita, quelli buttati annualmente sono circa 70 milioni.

“Il riciclo non è una soluzione – spiega Giuseppe Ungherese di Greenpeace -. I mercatini sono saturi e la sfida tecnologica per riciclare al 100 per cento le fibre non è ancora stata vinta. Le aziende dell’abbigliamento devono ripensare il modello usa e getta e produrre capi che durano”. Il danno ambientale provocato dall’inquinamento tessile non è affatto da sottovalutare: le immagini satellitari testimoniano che la superficie del Lago d’Aral, in Kazakistan, si è ridotta a un 10 per cento rispetto agli anni ‘60, causa della monocoltura del cotone, usato in circa il 40 per cento dei nostri indumenti, che ha deviato gli affluenti che lo alimentavano.

Se si considera tutto il processo che porta un paio di jeans sullo scaffale, i problemi non finiscono qui: tra lavorazione e tintura può arrivare a consumare 11.000 litri d’acqua; le piantagioni di cotone coprono meno del 3 per cento della terra coltivata, ma utilizzano il 10 per cento dei pesticidi e il 24 per cento degli insetticidi impiegati dall’agricoltura mondiale; infine, il consumo energetico per il trasporto non è da meno, ovvero il cotone viaggia in media 12 mila chilometri dal campo di raccolta al negozio di abbigliamento.

L’appello degli ambientalisti è quello di iniziare ad usare modelli più sostenibili e pratiche che rispettino l’ambiente. Però di certo non sarà facile limitare la frenetica corsa al cambio di guardaroba con indumenti dalla lunga durata. “Parlare di una moda che dura 30 anni è un ossimoro – osserva Ariela Mortara, docente di Sociologia dei consumi presso l’Università Iulm di Milano -. Quello che possiamo fare è diffondere una maggiore consapevolezza su cosa comporta la produzione a basso costo. A Berlino è stato fatto un esperimento con un distributore automatico di magliette a 2 euro. Una volta inserita la moneta, prima di ricevere la T-shirt, sullo schermo appariva un breve filmato su come era stato possibile realizzarla a quel prezzo: la maggioranza sceglieva l’opzione ‘rinuncia’ ottenendo indietro i soldi”. 

Veronica Nicotra -ilmegafono.org