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Dicembre 2013. Nel preparare un lavoro su Pippo Fava, un mese prima della celebrazione del trentennale della morte, chiesi alla figlia Elena di rilasciarmi una intervista, per parlare della figura di suo papà, intellettuale di raro e immenso valore che questa Italia ancora non riconosce come dovrebbe, e per raccontarmi quanto accaduto dopo quella maledetta sera di gennaio del 1984, quando la sua vita e quella della sua famiglia cambiarono. 

Fu per lo più una lunghissima chiacchierata, come altre ve ne sono state, nella quale Elena ha toccato molti aspetti della sua vita, del suo rapporto con suo padre, del senso etico e dell’onestà che egli le aveva lasciato, della città di Catania, delle ingiustizie e delle tante battaglie che la famiglia Fava ha dovuto affrontare.

Questa intervista è rimasta rinchiusa nel mio progetto e non l’ho mai resa nota pubblicamente.

Oggi che Elena improvvisamente se n’è andata, sento il bisogno/dovere di condividere questa chiacchierata, di non tenerla per me, di offrirla a chi vorrà leggerla e conoscere o ricordare una donna fiera e leale come lei.


Non c’è alcuno spazio per la retorica, nella memoria di chi ha perso un familiare ucciso dalla mafia. C’è anzi una sorta di allergia a tutto ciò che mira a costruire una qualsiasi forma di apologia del dolore, a puntare i fari sul dettaglio da cronaca nera o sulle reazioni emotive dei parenti e degli amici. Quando parli con chi ha visto il coraggio di un padre o di una madre, di un fratello o una sorella, di un figlio infrangersi nel piombo di chi era infastidito o terrorizzato da quel coraggio, impari a riconoscere la schiettezza delle parole a cui affidano il racconto di quello che era prima e di quello che sarebbe stato dopo, analizzando con precisione e lucidità quella linea di confine che ha cambiato la propria vita familiare e personale e che, spesso, ha tracciato il punto di partenza di un impegno deciso, martellante, rabbioso. Ma estremamente razionale. Una razionalità necessaria sin da subito, da quando non si ha spesso nemmeno il tempo di sfogare il dolore che sale e scende dentro il petto, perchè devi già difenderti e difendere la memoria del tuo congiunto dagli assalti, dallo squallido meccanismo dei depistaggi, dei bisbigli subdoli, del “negazionismo”. Lo sa bene Elena, figlia di Pippo Fava, oggi presidentessa della Fondazione dedicata a suo padre, che dal 2002 cerca di portarne il messaggio e il ricordo attivo in giro per l’Italia. Un’opera incessante che è testimonianza, racconto della vita di un intellettuale eclettico e geniale, ma soprattutto umano. Di un’umanità che ancora oggi dà fastidio a qualcuno. A Catania e non solo.

Elena, qual è la cosa che le è rimasta più impressa di quel drammatico 5 gennaio di trenta anni fa?

I ricordi sono molto vivi, ma non vorrei entrare poi in un discorso retorico. Quello che ricordo di più è il fatto che non ci è stato concesso, nemmeno per un momento, di poter esprimere il nostro dolore come un qualunque figlio o una moglie che si vedono privati di un padre e di un marito. Noi non abbiamo avuto la possibilità di piangere, di poter esternare il nostro dolore, se non le prime ore, perché già l’indomani mattina si è presentata la polizia, è venuto il questore, tutti a farci domande. Una cosa lunghissima, dalla quale ci siamo svegliati e di cui ci siamo resi conto solo il giorno dei funerali. Prima  non c’è stato il tempo, perché è stato tutto un susseguirsi di eventi dolorosi, compreso l’articolo firmato da Tony Zermo e pubblicato in prima pagina su La Sicilia, la mattina del 6 gennaio, che ricostruiva un delitto a cui nessuno aveva mai assistito e faceva intendere che la vittima si fosse accorta di quello che stava accadendo. Questo ci addolorò ulteriormente, perché l’unico nostro conforto poi sarebbe stato sapere che mio padre non si è reso conto di essere ammazzato. Da medico penso che, visto che nel nostro cervello ci sono tante immagini che rapidamente scorrono, quella che si è bloccata nel cervello di mio papà in quel momento sia stata quella di mia figlia sul palcoscenico, visto che lui la stava andando a trovare a teatro. Mi conforta pensare che se ne sia andato via con questa immagine, insieme alla sensazione di gioia di rivedere la nipotina.

Il dopo di cui Lei parla è fatto anche di indagini su I Siciliani, ingerenze vergognose sulla vostra famiglia, interpretazioni assurde del delitto, depistaggi. Di fronte a ciò, in quella Catania omertosa e ostile, con quale stato d’animo avete vissuto?

La paura è stata l’emozione dominante, il sentimento che ha governato questa città, i colleghi di mio padre, alcuni nostri amici e anche alcuni parenti. A Catania era la prima volta che accadeva un delitto di mafia simile. Mentre a Palermo siamo stati nostro malgrado abituati ad avere un lunghissimo elenco di morti, omicidi e stragi, Catania era una città in cui non si voleva parlare di mafia. Probabilmente neanche noi, che eravamo la famiglia, ci siamo mai resi conto che I Siciliani potessero essere un giornale pericoloso così come l’attività di mio padre, ciò che scriveva. Negli anni poi mi sono convinta, come del resto ha più volte scritto anche mio fratello Claudio, che Giuseppe Fava è stato ammazzato non solo perché era un giornalista, ma soprattutto perché era un intellettuale e quindi, in quanto tale, la sua opera, che comprendeva il teatro, i suoi dipinti, i libri, i suoi articoli e i giornali che ha diretto, stimolava la gente a pensare, a interrogarsi. Di questo la mafia ha avuto paura. A una persona puoi fare non solo una violenza fisica, ma anche una violenza morale, una forma di prevaricazione, togliendole tutte le possibilità di alzare gli occhi e di ascoltare.  Nel momento in cui qualcuno squarcia questo velo di prevaricazione e dà la possibilità a un individuo di capire ciò che effettivamente accade, quella persona diventa pericolosa, ancor più se lo fa attraverso un giornale libero, senza un partito alle spalle, senza un editore e con un direttore che non vi era alcuna possibilità di comprare. Questa è stata tutta la pericolosità della quale almeno io  non mi sono mai resa conto. Ad esempio, il giorno successivo all’intervista con Enzo Biagi, quando  sono andata al lavoro tutti mi fermavano e mi chiedevano perché mio padre avesse detto quelle cose così pericolose, mi dicevano che avrebbe dovuto pensare alla famiglia, ripetevano “ma chi glielo fa fare?”. Io rimanevo stranita perché secondo me era stato un discorso giusto, coerente con quello che sono sempre stati l’atteggiamento e lo spirito etico di mio padre, coerenti con la morale e con le cose che ci ha insegnato. Per me non era niente di nuovo, ecco il perché della mia incredulità.

In quella Catania, suo padre e il suo giornale erano considerati eversivi, semplicemente perché dicevano la verità. La solitudine di Pippo Fava e poi il vuoto attorno a voi, da parte dei giornalisti catanesi e siciliani, cosa le suscitava in quei giorni?

La paura in molta gente è vera, l’ho vista, la avvertivo, ma soprattutto sentivo il fastidio di alcuni suoi colleghi costretti, a quel punto, a misurarsi necessariamente con quello che aveva scritto mio padre. Due settimane dopo la sua morte, a Catania, si tenne il congresso nazionale dell’Ordine, con un grande convegno a cui parteciparono tantissimi giornalisti provenienti da ogni parte d’Italia. In quel momento, la presidente dell’Ordine dei giornalisti era Miriam Mafai, la quale disse che Giuseppe Fava era stato ammazzato perché era un uomo solo, perché nessuno in Sicilia aveva mai avuto il coraggio di scrivere come scriveva lui. La solitudine è quella che ha portato al 5 gennaio mio padre, ma è anche quella che ci ha circondato sicuramente i primi anni, quando abbiamo deciso di rimanere in questa città.

Secondo Lei, la figura di suo padre è ancora ingombrante e scomoda per molti catanesi?

Dopo 30 anni faccio un bilancio. Per me esistono due periodi ben precisi: il “prima 5 gennaio”, che è stato ormai vagliato, studiato, divenendo un fatto che possiamo ritrovare nei libri di storia; e il “dopo 5 gennaio”, con tutte le difficoltà nel far accettare il delitto Fava come un delitto di mafia. Sono convinta che ancora oggi la figura di Giuseppe Fava dia fastidio, perché rappresenta un termine di paragone sul quale giornalisti di una certa età, non sicuramente giovani (nei quali invece credo molto) cercano di sorvolare. La scorsa primavera ho partecipato a un incontro sulla legalità, a Gravina, fatto con i giovani. A parlare era stato invitato anche un giornalista de La Sicilia, già in pensione. Alla domanda di uno dei ragazzi che gli chiedeva cosa potesse raccomandare a chi volesse fare il giornalista in una certa maniera, lui teneramente ha risposto che bisogna aspettarsi che arrivi il capocronista redattore a correggere e sistemare l’articolo e che bisogna scordarsi di poter fare un giornale dove effettivamente venga scritta la verità. Sono saltata sulla sedia a queste sue parole. Lui sapeva chi fossi io, quindi la sua era una evidente provocazione Non dobbiamo permettere che passino questi messaggi. Abbiamo una enorme responsabilità nei confronti dei giovani.

Qualche anno fa hanno rubato i fiori dalla lapide, una ulteriore dimostrazione del fastidio che Fava ancora dà…

Me ne sono accorta casualmente, perché il 5 gennaio di solito non mi capita mai di tornare due volte in via Fava. Così, la stessa sera, passando per caso di lì ho scoperto che erano scomparsi i fiori. Qualche amico mi ha detto che probabilmente era stata la bravata di qualche ragazzino. Ho reagito male. Ho chiesto perché in questa città continuiamo ancora a volerci mettere un velo davanti agli occhi, a nascondere la realtà.

Che tipo di città è Catania, oggi?

Catania è una città particolare. C’è sicuramente un movimento civile, ci sono Libera e Addiopizzo, ci sono splendide associazioni che tanto fanno anche in silenzio, senza bisogno di sbandierare pubblicamente il lavoro che compiono per la legalità. Penso a tutte quelle scuole dell’estrema periferia, dove gli insegnanti non guardano mai l’orologio e si impegnano dalla mattina alla sera. Cose e persone ammirevoli di cui bisognerebbe parlare molto di più. Ma Catania è anche omertosa e c’è una parte che dice “io che ci posso fare?”, “non mi riguarda”, “dobbiamo ancora parlare del passato?”. A me, il giorno dopo l’esito del processo in Cassazione (quindi parliamo del 2003, appena 10 anni fa) un’amica mi disse: “Ora finalmente sarai contenta, rasserenata. Adesso la finiamo di parlare di Giuseppe Fava?”. Mi si rivolgevano quelle parole proprio nel momento in cui in me scattava la molla dell’impegno. Nel 2001, con Resì Ciancio e con mio fratello che ci ha dato un grande stimolo, abbiamo deciso di far nascere questa fondazione, perché Catania è una città dalla memoria corta e quindi bisognava far qualcosa per mantenere viva quella memoria. E anche perché ho realizzato che la vita di Giuseppe Fava nasce in Sicilia ma non si può fermare alla Sicilia. Prova ne è che poi, ovunque io vada in giro per l’Italia, tutti conoscono un po’ Giuseppe Fava. L’opera ancora è lunga, c’è molto da fare, però in parte siamo riusciti nel nostro intento.

Ma a Catania, 30 anni dopo, è cambiato qualcosa, a livello istituzionale, politico, nei confronti di suo padre, di quello che ha fatto e anche della sua famiglia e del vostro impegno?

Credo che molti hanno pensato che fosse importante usare la figura di mio padre come una medaglia da indossare, che bisognasse parlare di lui, parlarne bene, tirarlo in ballo all’occorrenza. Non scordiamoci che Crocetta, due anni fa, durante la campagna elettorale, disse che lui era il novello Pippo Fava! Chiamai mio fratello Claudio dicendo che dovevamo fare una immediata querela per diffamazione! (ride ndr). C’è stata gente che si è servita del nome di mio padre per fare campagna elettorale in questa città, proiettando perfino l’intervista con Enzo Biagi, quasi per far intendere di essere come mio padre, di aver voglia di lottare come lui. Una cosa che nemmeno io e mio fratello, che siamo i figli, abbiamo mai fatto. Da un paio di anni a questa parte, partecipando alla giornata della Memoria con Libera, ho conosciuto tante storie come la mia, storie di dolore, di silenzi, di memorie che si cerca di cancellare. Ho compreso come tanto ancora bisogna fare. Dobbiamo continuare a essere qui, fino a quando sarà concesso alla nostra vita, in maniera martellante. Io non mi stanco, anche se ci sono dei momenti di sconforto. A livello istituzionale, considerato che siamo nell’anno del trentennale, mi aspettavo un appuntamento, qualcosa per farci sapere che volevano esserci. E invece nulla. Ma va bene, forse è meglio così. Il teatro Stabile, invece, con il quale negli ultimi anni ci eravamo allontanati, ci ha proposto di fare qualcosa per ricordarlo. Questo è un cambiamento, che è parte di tanti piccoli cambiamenti.

Tornando al periodo nel quale si svolgeva l’opera di suo papà, di sicuro è mancata la politica, il sostegno alle idee che egli, da intellettuale, offriva. Soprattutto è mancata quella sinistra che avrebbe dovuto essergli più vicina e che invece, come avvenuto con Pasolini, guardava con diffidenza alla figura di suo padre. Quanto ha pesato la timidezza di quella parte anche nel dopo 5 gennaio?

Ci fu un episodio. Poco tempo dopo la morte di mio padre, io e mio fratello siamo andati a Milano. Abbiamo messo in valigia tutti i libri che aveva scritto, ci siamo suddivisi i compiti e siamo partiti, perché volevamo riproporre tutte le sue opere, tutti i romanzi che nel frattempo erano usciti. In quella occasione, la Federazione del Partito Comunista di un comune vicino Milano ha invitato me e mio fratello, ma anche i ragazzi dei siciliani (Roccuzzo, Orioles, Gambino e altri due o tre) a parlare della figura di Fava, ricordarlo e così via. Un momento bello, di cui mi sono anche stupita, perché alla fine mio padre era un uomo di sinistra, ma aveva rifiutato sempre di prendere qualunque tessera, poiché ciò avrebbe significato essere legato a un partito e perdere quindi quel concetto puro di libertà che egli aveva radicato nell’animo. Quei ragazzi furono gli unici che ci invitarono, dicendo che bisognava parlare di ciò che era successo, che volevano farlo lì, in un posto lontanissimo dalla Sicilia, da Catania. Poi ci siamo resi conto che invece era un tentativo di appropriarsi della figura di Pippo Fava, un tentativo di strumentalizzazione. Ce ne siamo resi conto perché mesi dopo sono venuti a propormi di entrare in politica, dal momento che portavo un nome importante. Mi dissero che avrei potuto portare avanti sia la memoria che la lotta di mio padre in una certa maniera, in un altro contesto. I tentativi di strumentalizzazione purtroppo ci sono, ci sono sempre stati e probabilmente continuano ancora a esserci, in maniera più leggera, più delicata, quando ci invitano a parlare di mio padre. Però, per fortuna, poi ci sono gli incontri con i giovani, nei quali non mi sono mai sentita strumentalizzata. Anzi, sono sempre occasioni fondamentali alle quali, a mio avviso, non si dovrebbe mai rinunciare.

In questo Paese, di fronte a vicende come quella di suo padre, i più interessati sono sempre più spesso i giovani, quelli che magari non erano nemmeno nati all’epoca dei fatti. Come se lo spiega?

Ciò accade perché forse i giovani, o alcuni di loro, oggi sono spesso sfiduciati, non riescono a trovare facilmente dei punti di riferimento, a volte vengono da famiglie che li abituano a non interessarsi, li esortano a pensare più a sé stessi, al loro avvenire che a occuparsi di certe cose. Allora hanno bisogno di punti di riferimento, che poi individuano in questi personaggi che hanno lottato contro la mafia e sono stati uccisi. E capita che talvolta li mitizzano. Ecco, su questo punto vorrei dire che a me non piace l’utilizzo del termine eroe per indicare questi personaggi, perché equivale a dire che erano diversi e che noi non potremo mai fare ciò che hanno fatto loro. Invece non è così. Erano tutte persone coerenti con il proprio lavoro, che amavano quel lavoro, che avevano la voglia della verità, il rigore morale ed etico dell’attività che svolgevano. Non erano eroi e non lo sono mai stati. Sostenere il contrario è solo una maniera per scrollare le spalle e girare lo sguardo dall’altro lato, un modo per dire “noi non c’entriamo, noi non possiamo essere come loro”.

Quindi è solo un bisogno giovanile di trovare delle guide che oggi mancano o ci può essere anche dell’altro?

Direi che c’è anche una buona parte di giovani che è mossa dalla curiosità, dalla necessità di andare a reperire delle informazioni per capire chi sono questi, perchè quella piazza è intitolata a Tizio o a Caio, eccetera. O magari semplicemente si interessano perché hanno avuto l’occasione di leggere e conoscere ciò che è stato scritto e fatto da queste persone, così capita di fare il confronto con la società di oggi e di eleggere quelle figure del passato come punti di riferimento. Sono tante le ragioni, tanti i bisogni, per questo dico che il nostro compito è di continuare, di non stancarci mai di andare in giro, di parlare costantemente con i più giovani. Se non ricordo male, una settimana prima del 5 gennaio, mio padre era andato in una scuola e aveva parlato a degli studenti di 17-18 anni, spiegando cosa fosse la mafia, come bisognasse combatterla, ma soprattutto sottolineando il valore della dignità che ciascuno di noi deve cercare sempre di difendere, quella dignità umana che non deve essere mai calpestata. Questo discorso bellissimo, che mi hanno mandato in un Dvd, ogni tanto lo ascolto e mi accorgo di come sia valido e attuale. A noi tocca continuare a diffondere questo messaggio. Anzi, più corruzione c’è, più sono cattivi gli esempi che ci giungono dall’alto, più noi dobbiamo essere positivi e trasmettere fiducia, dimostrare che le cose possono cambiare. Questo è lo spirito che noi familiari di persone uccise dalla mafia condividiamo e trasmettiamo quando andiamo in giro a parlare con i ragazzi. Nessuno di noi si è mai chiuso in casa, sentendosi vittima, oltre che familiare di vittima. Ci siamo tutti rimboccati le maniche, perché abbiamo pensato che da questa memoria dovessero scaturirne necessariamente un percorso e un esempio per gli altri.

Un po’ quello che Salvatore Borsellino dice a proposito della speranza di suo fratello Paolo, espressa in una lettera scritta la mattina della strage di via D’Amelio, nella quale diceva di essere ottimista perché aveva fiducia nei giovani e nel fatto che un giorno essi sarebbero riusciti a sconfiggere la mafia…

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno detto due cose che mi porto dentro e che spesso ricordo ai ragazzi. Falcone disse che la mafia, così come è cominciata, come tutte le storie ha avuto un inizio e un giorno avrà una fine. Io a questo ci credo fermamente. Ė la mia speranza. L’altra frase bellissima la pronunciò una volta Borsellino a un gruppo di ragazzi, quando disse: “Ricordate che questa terra un giorno sarà una terra libera e sarà una terra bellissima”. Queste sono parole che appartengono a loro e che io cerco di trasmettere anche ai giovani. Non è facile, assolutamente. Perché certe obiezioni ti colpiscono. Quando parlo con loro probabilmente riesco a far dimenticare la mia storia, perché cerco di estraniarmi molto, per evitare di essere coinvolta emotivamente. Così a volte i ragazzi mi dicono “lei parla, parla, e poi che facciamo? I fatti dimostrano il contrario”. E io rispondo che è vero, io parlo, però avrei potuto anche non farlo mai e chiudermi. Se racconto è perché ho fatto una scelta. Faticosa, impegnativa, pesante, però l’ho fatta. Potevo anche andarmene, cambiare città, abitudini, nome, tutto, ma sarebbe stato tradire, uccidere una seconda volta mio padre. E se uno decide di rimanere, lo fa prendendosi un impegno. Diventa una cosa normale, inevitabile, perché entra a far parte della tua pelle, dei tuoi odori.

Al di là degli sforzi della Fondazione, la storia di Fava non è ancora di dominio nazionale, non è ancora una storia popolare. Cosa serve, cosa manca per riuscire a farla diventare tale?

Credo che uno dei motivi sia che la Fondazione non ha un finanziamento economico, non ha fondi. Perché se avessimo avuto soldi avrei cominciato a pubblicare, non lentamente come abbiamo fatto fino a ora, tutte le opere di saggistica e di narrativa di mio padre. Perché le case editrici hanno fatto quel che hanno potuto, ma è chiaro che siamo fermi a molti anni fa. E se non vai in giro a presentare questi libri come faceva mio padre, la gente non ne avrà mai piena conoscenza, entrerà in libreria, vedrà il libro ma non lo comprerà. Al contrario, se hai la possibilità di andare in giro, di svolgere un’azione capillare o di mettere in scena un’opera teatrale che venga fatta a Roma o in altre grandi città, tutto cambia. C’è stato un momento in cui Ida Di Benedetto ha ripreso in mano il copione di “Femmina Ridens”, che lei ha chiamato “Pupa”, e lo ha proposto come lettura una sera a teatro, a Roma. Avendo riscosso un discreto successo, ha deciso di metterlo in scena e lo ha portato ad Avignone, a Parigi e in giro per l’Italia. Quello è stato il momento magico nel quale la gente improvvisamente ha scoperto che Giuseppe Fava era anche un autore di teatro e non soltanto un giornalista. Però, il problema è sempre quello: devi essere martellante, continuamente. Io vado in giro per l’Italia, anche a spese mie, proprio perché c’è bisogno di ricordare, di non abbassare l’intensità. Perché Pippo Fava spesso rimane una targa e al ragazzo che passa e si chiede chi fosse e perché c’è quel nome su quella targa, si deve rispondere e raccontare.

Il cinema è un mezzo molto diretto. Ci sono casi come quello di Impastato, che non era conosciuto alla maggior parte degli italiani, fino a quando non è stato prodotto “I Cento Passi”. Ecco, un film su Fava, ad esempio, sarebbe pensabile? Potrebbe essere utile, a suo avviso?

Sì, ma quello su Impastato è stato un film di successo. Fosse stato brutto, sarebbe passato come tanti altri. Per questo cerchiamo di stare molto attenti. In questi anni tante volte ci hanno chiesto di fare un film su mio padre, ma abbiamo sempre pensato che bisogna saperlo fare nella maniera giusta, proprio per evitare di dare un’idea distorta o fuorviante. Ad ogni modo ci sono anche altri canali per ricordare e devo dire che tante piccole cose si stanno muovendo. Qualche tempo fa mi è arrivata una mail di un sacerdote di Mazara del Vallo, il quale ha avuto a disposizione uno spazio in cui vorrebbe realizzare una sorta di museo sui 15 giusti della Sicilia. Uno spazio per raccontare tutte le storie di questi personaggi uccisi dalla mafia, un modo per fermarli nella memoria, per farli diventare punto di riferimento per i giovani di oggi e di domani che andranno a visitarlo.

Cosa le rimane di Pippo Fava? Qual è l’aspetto che lei ricorda meglio di lui, nel suo insieme, sia come padre che come personaggio?

Il suo carattere, la sua allegria, il suo senso dell’umorismo, questa forza intensa di essere sempre coerente con quello che accadeva e quindi raccontare sempre la verità. Questo è ciò che ci ha lasciato, che ci ha insegnato: non avere mai paura, non cedere mai alle facili tentazioni o ai compromessi, se sei sicuro di una cosa devi farla. E poi il rispetto per l’essere umano, qualsiasi cosa abbia fatto. Io ricordo che lui si poneva sempre il problema che dietro un fatto c’è sempre un essere umano che magari ha sbagliato (Certo, per lui era facile perché nessuno gli aveva ammazzato il padre. Per noi è un po’ più difficile accettarlo). Per fare un esempio, ricordo che ai tempi del Giornale del Sud arrivò la notizia di un ragazzo di una squadra di pallanuoto che era improvvisamente morto e si era scoperto che la causa era stata una overdose di droga. Una notizia  che sembrava perfetta per uno scoop in una piccola provincia. Ma mio padre bloccò tutto. Disse al giornalista che prima di scrivere una cosa del genere bisogna averne certezza, perché il giorno dopo questa notizia l’avrebbero letta i genitori. E un padre e una madre che leggono che un figlio è morto di overdose possono saperlo ma anche non saperlo. E non toccava al giornale dire certe cose. Questa fu, a mio avviso, una lezione di grande umanità.

Rara nel nostro mestiere…

Eppur bisogna averla. Ad ogni modo, non riguarda solo i giornalisti. Io ho fatto il medico e devo dire che oggi la medicina prescrive di fare tutto secondo i protocolli. “Il protocollo prevede che devi somministrare questa terapia”, ti dicono. Però il protocollo non ti spiega che dietro queste righe molto scarne, succinte e fredde, c’è una persona con le sue paure, il suo dolore, le ansie dei familiari. Ne vogliamo tenere conto di queste cose? Su questo tema mi sono scontrata continuamente con colleghi più giovani. Mi sono occupata per tanti anni dei ragazzi talassemici, ero la responsabile di tutto quel che riguardava la terapia trasfusionale. Prima di me c’erano alcuni colleghi che, quando il sangue mancava, dicevano semplicemente “non c’è”. E a chi replicava con un “ma io sto male”, a loro volta rispondevano “e io che ci posso fare?” e chiudevano il telefono. Niente di più sbagliato. Perché invece devi far capire, devi parlare con la gente, devi andare al di là dei protocolli. Non siamo davanti a teoremi, a modelli matematici. Per me l’umanità è una cosa essenziale.

Quindi l’insegnamento di suo padre se lo è portato anche nella sua professione?

Certo, ma questa cosa mi fu detta anche il primo giorno in corsia. Il professore mi disse: “Ricorda di trattare sempre i tuoi pazienti come fossero tuo padre e tua madre, con la stessa pazienza, la stessa tolleranza, lo stesso interesse”.

C’è una cosa che mi chiedo da quando ho letto la notizia, qualche tempo fa, dei guai giudiziari dell’editore Mario Ciancio, del fatto che sia stato indagato per mafia: cosa ha provato di fronte a quella notizia?

Ho pensato che finalmente tutti i nodi arrivano al pettine e che inizia a vedersi un barlume di giustizia. Poi, però pensi che questa è gente che cade in piedi, che non ha l’umiltà di riconoscere i propri errori, che continua a essere ugualmente arrogante. L’ho visto con tutti, anche con i cavalieri del lavoro che nel frattempo sono morti senza mai fare un passo indietro. Tutta gente che ha sempre mantenuto intatta la propria arroganza. Eppure ci sono state tante possibilità, anche nel passato, di poter dire “abbiamo sbagliato, siamo qui”. Non dimentichiamo che 4 anni fa, quando è stato il momento in cui bisognava raccogliere quella cifra di 100 mila euro per la rivista I Siciliani, per quel debito che era andato crescendo, ci hanno dato tutti addosso. La maggior parte, soprattutto a livello giornalistico, ha detto “ma perché dobbiamo dare soldi per aiutare I Siciliani? Li mettano i Fava, che sicuramente i soldi ce li hanno”. Una cosa sussurrata, subdola. In quell’occasione, in una conferenza stampa che io ho fatto per spiegare perché stessimo chiedendo aiuto a tutta la nazione per I Siciliani, per tutto quello che avevano rappresentato, ho trovato una giornalista de La Sicilia che mi ha detto di essere venuta come amica e non come giornalista, dal momento che Ciancio aveva ordinato che nelle sue pagine il nome Fava non dovesse essere mai scritto. Bisogna però dare atto di una cosa a Mario Ciancio. Fantastichiamo per un attimo: Giuseppe Fava continuerà a vivere sempre, anche per il futuro; mi auguro che entri insieme agli altri nei libri di storia, dato che questa ormai è storia che appartiene a tutti, non è più solamente mia e della mia famiglia. Lui ha fatto il giornalista in una certa maniera e verrà ricordato per questo. Mario Ciancio, invece, verrà ricordato ai posteri come l’editore che ha combattuto Pippo Fava, perché altro di buono nella sua vita non ha fatto. Questa è una cosa piacevole da pensare, tutto sommato. Una buona prospettiva. Detto ciò comunque, gioia non se ne prova mai in queste cose. Dentro di me invece rimane la rabbia di aver perso il padre quando ero ancora abbastanza giovane, la rabbia per tutte le cose di cui, non io o le mie figlie, ma lui non ha goduto, tutti i piaceri, le cose belle di questa famiglia, le soddisfazioni, i momenti di orgoglio che lui non ha potuto vivere. Questo dentro me suscita sempre una grande rabbia. Giustizia sia fatta, dunque, e che ben venga questa giustizia.

Anche perché comunque è qualcosa che arriva tardi e quindi forse lascia più amarezza.

Non dimentichiamo che sono trascorsi 11 anni per arrivare a un processo, pur avendo noi indicato subito in che direzione bisognasse cercare le ragioni del delitto e dove probabilmente era maturato. La prima sessione si è aperta nel giugno del 1995 e abbiamo dovuto aspettare 8 anni per arrivare alla Cassazione, con un giornale che intanto dava spazio alle interviste a Santapaola o agli Ercolano, ma non alla famiglia Fava.

Una vergogna enorme nella storia del giornalismo siciliano.

Credo che bisogna essere motivati, credere molto in questo lavoro, come in tutti gli ambiti professionali d’altra parte. Il concetto etico del giornalismo mio padre lo scrisse per il giornalismo, ma è valido per qualunque mestiere si faccia. Perché lo devi avere sempre dentro di te questo spirito etico.

Un richiamo alla responsabilità, all’impegno civile.

Esatto. Significa che non puoi alzare le spalle e dire “non mi interessa, non fa parte della mia vita” oppure “io che ci posso fare?”. Viviamo in una società e siamo circondati da tanti problemi, ognuno nel nostro piccolo qualcosa, anche non eclatante, la può e la deve fare.

La Fondazione, negli anni, ha premiato tanti giornalisti e autori teatrali. C’è qualcuno oggi che, secondo Lei, possa essere considerato, non dico l’erede, perché è un’eredità pesante, ma diciamo un prosecutore di Pippo Fava?

Questa è una domanda molto difficile. Devo dire però che un giornalista che io seguo molto, che mi piace per il modo in cu racconta le cose, per il suo coraggio, è Fabrizio Gatti, a cui abbiamo dato il premio nel 2007, alla prima edizione. Perché è uno che ci mette la sua faccia ed entra dentro alle cose che racconta. Poi devo dire che tutti questi giovani che si impegnano, che scrivono, sono una speranza. Va detto che mio padre non è arrivato subito, a 25 o 30 anni. Lui è stato sempre coerente, ma sicuramente quando è diventato capo cronista dell’Espresso Sera ha dimostrato come bisognasse fare il giornalista, e poi con le inchieste che ha fatto successivamente e ancora con il Giornale del Sud, con I Siciliani, il teatro e le altre cose che ha scritto. A 25-30 anni diamo ancora tempo a questi giovani di crescere e dimostrare quanto valgono.

Massimiliano Perna