Il senso del dovere, la testa alta, la schiena dritta. Costi quel che costi. Nino Di Matteo ha dato un segnale importante, ha offerto a questo Paese distratto e colpevole l’occasione di guardarsi dentro. Lo ha fatto senza urlare, sbattere i pugni o insultare. Lo ha fatto con il suono tagliente della dignità. Ancora una volta ha mostrato cosa vuol dire avere senso dello Stato e rispetto per le sue istituzioni, anche quando quello Stato e quelle istituzioni non ricambiano con uguale rispetto e, anzi, offrono isolamento e pugnalate. Il giudice Di Matteo non lascia Palermo. Ha deciso di rimanere, nonostante il livello di rischio per lui sia massimo.

Nonostante un mafioso palermitano, intercettato nell’ambito di un’altra indagine, abbia indirettamente confermato il progetto di cosa nostra di eliminarlo. Il Csm, allora, considerato l’ennesimo riscontro sulla volontà mafiosa di uccidere il magistrato, ha proposto il suo trasferimento d’ufficio e senza procedure concorsuali alla DNA (Direzione Nazionale Antimafia). Proposta respinta al mittente. Qualcuno si è chiesto perché, visto che quel posto Di Matteo lo insegue da tempo, con ben due concorsi andati male per via del respingimento delle domande: la prima volta a causa della preferenza accordata ad altri magistrati, seppur dotati di meno titoli di lui (decisione contro la quale il pm palermitano ha presentato ricorso poi bocciato dal TAR); la seconda volta per un ridicolo vizio di forma (un documento non allegato e il mancato utilizzo di un apposito modulo).

La risposta al quesito è semplice. E non stupisce chi conosce il livello morale, umano e professionale di Di Matteo. Egli non ha accettato perché non vuole scorciatoie e preferisce arrivare alla DNA con un normale percorso concorsuale, sperando che questa volta il Csm non ponga ostacoli difficilmente comprensibili. Ma soprattutto, il magistrato non ha accettato in quanto, andare via in una simile maniera, con una procedura di urgenza davanti a un pericolo imminente, apparirebbe quasi una fuga e significherebbe dare un segnale di resa e debolezza. Non soltanto personale (anche se sarebbe umano e comprensibile mettere la sicurezza della propria vita davanti a tutto), ma anche e in particolar modo istituzionale.

Di Matteo, che dalle istituzioni è stato lasciato solo, attaccato, offeso, ha voluto primariamente tutelare quello Stato nel quale crede ancora. Nonostante tutto. Lui, pm del processo su quella oscena trattativa nella quale le istituzioni politiche e militari assunsero una posizione di vergognosa fragilità, vuole dimostrare, alla mafia e a chi ne è complice, che lo Stato in cui lui crede e per il quale lavora (sotto scorta da oltre venti anni) non fugge, non arretra, non si nasconde dietro scorciatoie. Non si ferma. La magistratura continuerà a indagare sulla verità, proseguirà la sua difficilissima opera di abbattimento di una menzogna sulla quale si sono basati gli ultimi venticinque anni della storia politica della nostra Repubblica. Un segnale forte, dirompente, stracolmo di dignità.

Un atto che probabilmente spiazza e imbarazza i vertici istituzionali e i detrattori di Di Matteo e degli altri giudici che indagano sulla trattativa. Detrattori che si nascondono ovunque: nella politica, nella magistratura stessa, negli organi di comando, tra i giornalisti e così via. Si muovono, sibilano, serpeggiano, attaccano attraverso sentenze che non nascondono contraddizioni e oltrepassano gli steccati del giudizio di merito spostandosi spesso sulle accuse personali e su convinzioni non dimostrabili (a proposito della sentenza di assoluzione di Calogero Mannino, ad esempio, che in molti considerano la sconfitta del processo sulla trattativa, consigliamo di leggere l’intervista ad Antonio Ingroia su Antimafia Duemila).

Si muovono, sul piano generale, subdolamente e con grande compattezza. E il loro ondeggiare spumoso, in queste ore, ha sbattuto sulla fermezza di Di Matteo. Sul suo restare dritto, convinto del lavoro svolto e di quello ancora da svolgere. Deciso a non arrendersi, costi quel che costi. Lo Stato non può e non deve abdicare al suo ruolo. Mai.

La DNA rimane un obiettivo del giudice, un luogo dal quale poter alzare il livello delle indagini, ma deve essere un approdo lineare, una logica conseguenza di un lavoro e di una procedura regolare. Per tale ragione, Di Matteo ha scelto di presentare nuovamente domanda per il ruolo di sostituto presso la DNA. La speranza è che questa volta tutto vada bene e che, nel frattempo, le istituzioni dello Stato, dal governo agli organi di vertice della magistratura, dopo essersi riprese dall’imbarazzo per la risposta dignitosa e retta di Di Matteo, comincino davvero a dotare lui e i suoi colleghi di tutti gli strumenti e l’ascolto prioritario che servono a lavorare al meglio e soprattutto fuori da pericolose logiche di isolamento.

Noi cittadini invece abbiamo l’obbligo di continuare, ancor più di prima, a fare da “scorta” a Nino Di Matteo e a sostenerlo. Perché il suo senso del dovere lo merita, è civile, educativo, coraggioso, onesto. Alziamoci in piedi per lui. Tutti insieme. Non lasciamolo solo.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org