Gomorra. Una parola che senti ripetere centinaia di volte, soprattutto quando in tv o sui giornali spuntano racconti, immagini, storie che ti mostrano le stesse dinamiche di quello che il libro prima e la serie tv poi hanno ben raccontato. Gomorra, una parola che ormai sembra un cliché usato come immediata rappresentazione di una situazione tipo che non ha più i contorni della narrazione biblica, ma unicamente quelli del sottobosco campano, dei budelli e dei palazzi fatiscenti della periferia napoletana o di quella casertana o di qualsiasi altra periferia attraversata dal liquame delle mafie che controllano interi territori. Le immagini di Ponticelli, delle sparatorie per strada, di una scena divenuta “normale”, “consueta” per chi ci vive e sa che quando arrivano quegli scooter non può far altro che scappare il più velocemente possibile, ché tra poco comincerà il far west tra clan, hanno fatto il giro del web e del Paese.

E le reazioni sono sempre le stesse: chi è lontano da quei luoghi sgrana gli occhi stupefatto e poi, con una smorfia snobista, apostrofa quella parte dell’Italia come un mondo a parte che non lo riguarda, dal destino immutabile e dal marchio indelebile; chi è vicino, invece, scrolla le spalle oppure si infuria, perché quelle cose le conosce ma sa che la sua città non è fatta solo di questo, che in quelle periferie c’è anche chi si sbraccia ogni giorno per costruire legalità, che certe cose accadono anche altrove ma non se ne parla, fa meno clamore, perché magari non possiede gli stessi tratti immediatamente riconoscibili. Il bersaglio, allora, diventa sempre lo stesso: chi ha deciso di scrivere, di raccontare. Come Roberto Saviano, accusato troppo spesso, come accade a chi sceglie di far vedere da vicino la verità, di aver rovinato l’immagine di una città o di una regione, di averla presentata come un inferno e di averne taciuto le bellezze e gli esempi positivi. Di aver, insomma, esasperato la realtà per poterne trarre chissà quali vantaggi.

Una realtà che, poi, si mostra però esattamente come lui l’aveva raccontata, con gli stessi orrori, con le stesse situazioni, con quegli scenari di guerra che ogni tanto finiscono nelle riprese nascoste delle operazioni di polizia e carabinieri. Scene di dominio incontrastato, di bande che si muovono liberamente, opprimono i quartieri, li controllano pezzo per pezzo, regolano i loro conti nella massima impunità, fino a quando non arriva il blitz o la retata che toglie qualche pezzo agli eserciti in campo. I quali, però, non si scoraggiano, e nemmeno due giorni dopo gli arresti, tornano a sparare e a uccidere, come è avvenuto al Conocal di Ponticelli, con un morto ammazzato e un passante ferito. La guerra continua, non la fermano le operazioni di polizia, non la fermano le immagini mostrate al mondo intero. “Questa è la guerra dimenticata del paese – scrive Saviano – che qualche volta viene ripresa dalle telecamere nascoste e costringe quindi per un attimo a non voltarsi. Una guerra che abbiamo deciso di narrare oltre l’emergenza e con lo strumento dell’arte”.

Ha ragione Saviano quando sostiene che questa realtà non se l’è inventata lui. Ed è stupido accusare uno scrittore di aver fornito un’immagine distorta di un’area che poi, dalle inchieste e da quello che emerge, mostra di corrispondere esattamente a quell’immagine. È ovvio che nessuna realtà è tutta negativa, che c’è anche il bene oltre al male, che ci sono migliaia di persone oneste e centinaia di donne e uomini di buona volontà che lottano e lavorano, in silenzio, nell’ombra, tra mille difficoltà. Ma questo cosa c’entra? Se Gomorra, di una data area, racconta uno spaccato orribile e sanguinoso, che esiste, è concreto, inconfutabile, per quale ragione dovrebbe aggiungere un dolcificante? Forse per dare un piccolo contentino alle coscienze di qualcuno?

A volte si ha il sospetto che non tutti quelli che criticano abbiano letto il libro: a don Diana viene dedicato un capitolo intero e ci sono altri personaggi dell’anticamorra tra le pagine di Gomorra. Vero è che la serie tv, invece, non dà spazio alcuno alla “controparte” e fa vedere solo la camorra e i suoi orrori, ma si tratta evidentemente di una scelta realistica che mostra quel sottomondo dall’interno e ne dipinge i tratti così realmente disumani, squallidi, violenti, al punto che se qualcuno dovesse identificarsi con i suoi personaggi vorrebbe dire che ha dei problemi serissimi da affidare al lettino di uno psicologo. Le immagini di Ponticelli, gli spari sui balconi, la gente che scappa, gli animali che fuggono, il terrore e subito dopo la normalità quotidiana, come se non fosse successo niente di eccezionale, sono la dimostrazione che la realtà è molto più incredibile delle sue rappresentazioni cinematografiche o letterarie.

Negare l’evidenza, dire che queste cose succedono ovunque, vuol dire compiere quello che lo scrittore napoletano definisce un atto di omertà, impotenza o codardia. “Qui – scrive Saviano su Repubblica – non c’è da sottovalutare questi episodi, qui c’è solo da ribadire che il Sud vive un abbandono, assenza di progetto, assenza di risorse, assenza di visione, assenza di attenzione. Il lamento del Mezzogiorno verrà descritto come se fosse soltanto un languido lamento e un’infantile richiesta d’attenzione e assistenza. Qui si consuma un dramma che abbiamo iniziato a sopportare come il più ordinario dei modi di vivere. Naturalmente queste cose accadono, ma quel meccanismo che fa immaginare una realtà spaventosa e la trasforma in una ricostruzione curiosa crea una pericolosa distanza. Queste immagini rischiano di essere percepite come messa in scena di una guerra lontana che non interessa, tutto diventa sopportabile e al massimo attira la curiosità di un video visto come decine di altri sullo smartphone postato da qualche amico”.

Una guerra quotidiana in una periferia come tante altre ne esistono in Italia, luoghi controllati dalla mafia e nei quali lo Stato non c’è se non sporadicamente, quando si compie qualche operazione con i relativi arresti. Uno Stato che non ha messo in agenda alcun intervento sociale ed economico, urbanistico, civico, culturale e la cui assenza si manifesta nella libertà dei clan di muoversi su quelle strade, di tenere sotto scacco e sotto il terrore centinaia e centinaia di famiglie costrette a conviverci.

Forse, se invece di fare la guerra ai disperati, ai migranti, a persone oneste che hanno l’unica colpa di avere un permesso di soggiorno scaduto o di non avere un documento regolare, ci si impegnasse un po’ di più contro il potere dei clan, per migliorare le periferie e per riportare lo Stato in luoghi dai quali è stato estromesso, certe scene non le vedremmo più. E non ci sarebbe più bisogno di un libro per accendere i riflettori su una vicenda che era rinchiusa nel buio di confini locali e regionali e che, oggi, finalmente, è di dominio nazionale.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org