Gli scenari sono molto simili, per non dire identici. Cambiano i luoghi, i dialetti, i colori e le caratteristiche della terra, possono cambiare le colture oppure no, rimanere uguali a quelle distanti alcune centinaia di chilometri e spesso anche meno. Ciò che non cambia è l’isolamento, il senso di abbandono, la negazione di ogni diritto, la necessità di adattarsi, la disperazione e la fatica che si mischiano alla speranza e alla resistenza, i volti in gran parte neri che spuntano tra una stradina e un’altra, tra un campo e un altro. Schiene curve sotto al sole che poi si fermano e tornano nelle casupole, in alloggi di fortuna, nei casolari dimessi. Lontani dai centri, dalle vite quotidiane dei cittadini, nelle quali fanno apparizione di tanto in tanto, per comprare acqua, cibo, sigarette o carte telefoniche, tra la diffidenza e l’irritazione dei “bianchi”. Quelli che li considerano solo braccia, che tollerano ampiamente il loro sfruttamento ma non sopportano la loro presenza, la loro visibilità. Quelli che li sfruttano, li vessano, minacciandoli di non farli lavorare più o di ritorsioni fisiche se si azzardano ad alzare la testa.

Storie sempre uguali di esseri umani costretti a vivere come fantasmi. Ai polsi hanno catene invisibili ma dolorose e la loro esistenza è più evidente quando giunge la morte, quando il fantasma diventa ufficiale, visibile. Perché questo Paese è fatto così, si sveglia di fronte ai morti che pesano come macigni sulla nostra coscienza e che da vivi abbiamo completamente dimenticato. Abdullah Mohammed, questo il suo nome (perché sono esseri umani e hanno nomi, cognomi, età, storie, famiglie, sogni, pensieri), è solo l’ultimo dei tanti lavoratori migranti cancellati dallo sfruttamento. L’ultima delle tante vite spezzate in mezzo a quelle dannate campagne che sono tutte uguali, da Nardò a Foggia, da Rosarno a Gioia Tauro, fino a Cassibile.

Lavoro stagionale, braccianti immigrati, in maggioranza cittadini regolarmente presenti nel nostro territorio, sfruttamento bestiale, schiavitù che si compie sotto gli occhi di tutti: istituzioni, sindacati, magistratura, forze dell’ordine, associazioni e cittadini. Tutti colpevoli in generale, con le dovute eccezioni ovviamente per quei singoli che, nei rispettivi ambiti, provano a fare il proprio dovere, troppo spesso in solitudine. Abdullah aveva 47 anni, lavorava come bracciante stagionale, era regolare e dunque avrebbe potuto usufruire di un contratto di lavoro. Era uno dei tanti che girava l’Italia, in questa via crucis moderna tra le campagne della nazione. Aveva la famiglia, moglie e due figli, a Caltanissetta, in Sicilia. Se n’è andato per un malore, a Nardò, tra il sole cocente e il rosso dei pomodori. La magistratura questa volta è stata rapida: davanti alla morte ha indagato la titolare dell’azienda, il marito di lei e un sudanese, il caporale che lo aveva arruolato con quell’odioso meccanismo di scelta che segue criteri ingiusti e umilianti.

Un ufficio di collocamento medievale, quotidiano e incessante, della cui esistenza tutti sanno e su cui in tanti hanno scritto, abbiamo scritto, per anni, riuscendo a pubblicare fino a quando faceva notizia. Poi, il silenzio, storie che non interessavano più. Dopo i fatti di Rosarno, nel 2010, quando il caporalato è divenuto questione nazionale e per settimane non si è parlato d’altro (e la risposta politica fu penosa), è calata l’oscurità. Come se una volta distrutta la Rognetta (l’ex capannone nel quale si riparavano i lavoratori migranti) e cacciati via i “neri”, una volta scattati (qualche mese dopo) gli arresti di proprietari terrieri e caporali da parte della procura di Palmi, il caporalato fosse una questione chiusa, finita. La cosa da anni non interessa più e mi stupisco quando racconti già scritti da molti di noi anni fa vengono tirati fuori di tanto in tanto come notizie nuove, con tanto di sconcerto pubblico.

Come se l’Italia avesse cancellato tutto, rimosso Rosarno, Cassibile, Foggia, Vittoria, solo per citare i casi più eclatanti e noti. La schiavitù agricola non sconvolge, non indigna più, è accettata. Come lo sono quella edilizia, quella del lavoro domestico o della ristorazione e le tante altre che hanno per protagonisti i lavoratori di origine straniera. Tutto è messo nel conto di un mercato senza regole dentro a uno Stato allergico alle regole, alla prevenzione, ai controlli. Uno Stato che quando interviene lo fa per colpire le vittime, ogni giorno, non solo con le leggi, ma con i dispetti burocratici, con le intimidazioni da parte delle forze dell’ordine, con gli oltraggi culturali di cittadini, esponenti politici e movimenti neofascisti e razzisti. Abdullah Mohammed era sudanese.

Dal Sudan sono arrivati tanti rifugiati politici. Profughi. Quegli stessi profughi che, a Treviso e a Roma, bande di delinquenti miste a residenti ottusi hanno respinto, rifiutandoli come vicini, impedendo l’arrivo delle risorse alimentari. Teppaglia che non sa, non capisce, non vuole capire. Cittadini e neofascisti uniti non da un’ideologia morta e vigliacca, ma dalla propria ignoranza egoista, da una cattiveria inaccettabile, che la legge dovrebbe perseguire. Non hanno voluto per vicini degli esseri umani per bene, gente pacifica che è scappata per non partecipare alle violenze, gente che ha solo bisogno di salvarsi, provare a mettere in un angolo l’orrore vissuto e poi ripartire, cercando lavoro e una vita normale, lasciando perdere i sogni legati ai propri studi e alle proprie aspirazioni. Abdullah Mohammed era uno di loro.

Non era un vicino di casa scomodo, di quelli (italianissimi) che impazziscono, imbracciano una pistola e fanno fuori i condomini (e ho la tentazione di augurare, ai residenti romani e trevisani che hanno chiesto la cacciata dei profughi, che al posto di questi ultimi arrivi un vicino del genere). Abdullah era un padre di famiglia, non ha tolto il lavoro a nessuno (immagino che nessun italiano prenderà il suo posto), non ha ucciso nessuno. Ha solo cercato di vivere e di sopportare pur di dare un futuro degno ai propri figli. Ma è morto. E lo abbiamo ucciso noi, con il nostro egoismo, la nostra indifferenza. La colpa è anche di noi giornalisti, di molti direttori, di quelli animati da logiche idiote per cui un diritto umano negato per avere spazio in pagina deve fare notizia e non semplicemente esistere. Da oltre dieci anni vado in quei campi, attraverso le sterpi, calpesto la terra, respiro un vento pesante che sa di miseria. Non umana, ma morale. Mi riferisco alla miseria di chi sfrutta il bisogno degli esseri umani per lucrare, per guadagnare un euro in più.

Ho incontrato molti Abdullah Mohammed in questi anni, ho parlato per ore con loro, stretto mani, passato del tempo, costruito amicizie. A Cassibile pochi mesi fa erano quasi duecento, quasi tutti sudanesi. C’erano tanti dell’età di Abdullah Mohammed. Magari c’era anche lui, forse ci siamo anche stretti la mano, salutati, scambiati un sorriso o uno sguardo veloce. Non lo so. Non lo saprò mai. Ma non importa. La rabbia e le lacrime sono identiche. Perché quella sorte potrebbe toccare a ciascuno di coloro che ho avuto la fortuna di ascoltare e conoscere in questi anni. Esseri umani esemplari dotati di una grande ricchezza e di un cuore che questo Paese continua a pestare e schiacciare come pomodori a cui togliere, non solo la buccia, ma anche la polpa.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org