Sono già passati 28 anni da quando venne coniato il termine “Washington consensus”, ovvero da quando vennero introdotte le famose 10 direttive che le grandi economie occidentali, insieme alle loro istituzioni più rappresentative, partorirono per sostenere i paesi in via di sviluppo in caso di crisi. Il senso originale di questo diktat economico-mondialista (qui i dettagli) era di carattere bonario, di supporto alle economie del Terzo mondo. Terzo mondo reduce dalle crisi economiche dell’America latina degli anni Ottanta, della crisi petrolifera e di molti altri eventi di carattere materiale che aprivano le porte ad un nuovo momento storico dell’economia globale: quella che viene appunto chiamata globalizzazione.

Distaccatesi dall’originale senso, come detto sopra “bonario”, queste strategie, portate avanti da giganti come la Banca mondiale, l’FMI e i suoi simili, hanno fatto sì che da una funzione di supporto si sia passati rapidamente ad una funzione di liberismo mondiale. Fu cosi che città come Santiago del Cile, Lima, le capitali indiane e molte altre realtà iniziarono a prendere terreno nel mercato internazionale. Spesso come basi neocoloniali per interessi occidentali, sia estrattive di ricchezza sia commerciali per l’aumento della forza di consumo dei paesi del Terzo mondo. Tutto questo con annessa contaminazione sociale, oltre che ambientale.

Con la caduta del muro di Berlino, con la fine  dunque della guerra fredda ufficiale, il capitalismo aveva vinto, e con esso la libertà economica. La minaccia rossa era stata vinta e tutti i paesi che erano sotto questa disputa divennero potenziali paesi a futuro capitalistico, prede del liberismo.

Le multinazionali entrarono nei vari stati che prima erano sotto dittature sanguinarie. Dittature spesso abbattute o imposte dagli stessi USA, a seconda della convenienza. Pinochet, i generali argentini, l’operazione Condor in generale, ne fanno da esempi maestri. Dittature poi sostituite da deboli democrazie vittime della corruzione dilagante e oggi in mano a gruppi economici di dimensioni trans-nazionali. Per chi non avesse avuto il piacere di farlo, si consiglia di dare una occhiata al caso Odebrecht.

Ed eccoci tornare al titolo di questo breve articolo: buona e cattiva globalizzazione, quali differenze?

Troppo spesso la globalizzazione, come concetto generale, è disprezzata da vari ambienti tendenti alla sinistra socialista fino ad arrivare agli estremi nidi post-comunisti che oggi sembrano ancora essere vivi. Proprio qui è interessante fomentare un dubbio, al fine di poter aprire un dibattito: ogni forma di commercio internazionale è maligna?

Decisamente no, ma la rabbia è pienamente comprensibile. Proprio a partire dagli anni Novanta ha avuto inizio lo sfruttamento massificato della debolezza delle democrazie del Terzo mondo, incluse quelle ex-sovietiche. Abuso nella manodopera a basso prezzo, assenza di opinione pubblica, degli apparati burocratici facilmente corruttibili per ottenere vantaggi sugli standard ambientali, sociali e via dicendo. Da lì, multinazionali private, pubbliche, istituzioni religiose come la stessa Chiesa cattolica e tanti altri sguazzavano nella libertà di poter fare quello che volevano. Basti pensare al caso Alpi, che sembra essere stato riaperto proprio in questi giorni per depistaggio e che è un caso simbolo della cattiva globalizzazione. Anche la cocaina prese vento come droga, non più solo dei ricchi, proprio in quegli anni.

Al margine di questo cosmo diabolico, vi è pero da considerare che esistono angoli, isole e comunità d’onestà. Il commercio di cacao e quello di caffè sono per esempio attaccati rispettivamente ai valori della borsa di Londra e New York . Così come già esistono derivati finanziari sul grano e via dicendo. Sì, la famosa finanziarizzazione dell’economia reale è in atto e sta influenzando il mondo e la sua economia.

Perché citare questo? Perché, come detto, a margine del mondo dei grandi, dei colossi, vi è ancora un commercio reale, una sorta di nobile mercato veritiero, tra piccole e medie imprese del mondo. Proprio concentrandosi lì, su quel che di buono è stato fornito dall’abbattimento delle distanze, si può notare come la galassia finanziaria-capitalista ostacoli il fiorire di un modello di globalizzazione alternativa, più sana. Si parla non di uno sfruttamento da parte dei grandi gruppi che ricattano i produttori di Chanchamayo con il prezzo del caffè di New York, ma di un incontro culturale tra persone che nella vita hanno scelto la bellezza dello scambio economico che, laddove è sano, è anch’esso bellezza.

Non degli incontri in fredde location dove uomini in abiti di lino e seta decidono di quantità immense di prodotti, magari per lavare denaro, magari per ridurre l’offerta e alzare i prezzi, magari per metterci un po’ di cocaina tra quelle belle banane brasiliane. Non funzionari corrotti che permettono il “Land grabbing”, non stiamo parlando di loro. Stiamo parlando di imprenditori con la passione delle culture diverse, di cioccolatieri che amano tanto i boulevard di Parigi quanto le selve selvagge del Perù. Amanti del cibo, dell’incontro, che viaggiando trovano chi dall’altro lato del mondo li accoglie. E anche la nascita di partnership sane vedono i loro frutti. Acquirenti italiani che passeggiano per Satipo perché, dopo aver conosciuto i loro fornitori di zenzero, decidono di aiutarli nell’acquisto di un macchinario, certo per facilitare la produzione e dunque il commercio.

Incontri, strette di mano, contratti sull’onore, instaurazione di fiducia, un vero incontro tra culture, perché la cultura è scambio e il commercio è lo scambio per eccellenza, ed io mi chiedo, pur consapevole che il commercio è pur sempre guadagno economico: ma come non si fa a vedere nobiltà nell’economia globale laddove vi è buona fede ed assenza di avarizia e megalomania? E chissà quanti buoni esempi ancora nel mondo, anche fuori dall’America Latina, esistono così. Chissà quanto il nostro mercato sarebbe più vero se non fossimo soggetti a gruppi universali che dicono che la bellezza del “cacao chuncho” non gli interessa perché non è un prodotto di consumo di massa, dato che solo 500 kg annuali vengono prodotti in un piccolo fazzoletto di terra vicino a Pangoa. E magari questa varietà sarà destinata a sparire pur essendo un lusso che questo cafone consumo di massa non vuole darsi.

Un tempo i mercanti erano nobili, non di sangue, ma d’animo, ma oggi no: potranno anche essere proprietari dei grandi capitali e del consumo, ma questa nobiltà ai freddi contrattatori corrotti nelle viscere della cultura liberista non apparterrà mai, come non gli apparterrà mai il sapore intenso leggermente amaro della variante peruviana del caffè geisha.

Italo Angelo Petrone -ilmegafono.org