Termoli, provincia di Campobasso, la città dalla quale Luigi Bonaventura, ex reggente della cosca Vrenna-Bonaventura di Crotone, oggi collaboratore di giustizia dopo un percorso passato preventivamente da una dissociazione volontaria che gli è costata due attentati ad opera della sua famiglia, denuncia quello che non va nella gestione del suo caso personale e, in generale, nel sistema di protezione che la legge prevede per chi sceglie di passare dalla parte dello Stato. Località che doveva essere segreta, ma che lui stesso ha rivelato dopo aver capito che tale segreto era stato violato già dai primi giorni da chi doveva proteggerlo (come ci spiegherà lui stesso). Terra per nulla tranquilla, il Molise, crocevia di pericolosi intrecci tra poteri occulti, luogo nel quale la fiducia nelle istituzioni si misura tra gli sguardi storti che popolano la memoria di un passato ambiguo, scandito da fatti clamorosi che hanno segnato la recente storia italiana.

Fatti che in troppi hanno dimenticato di collegare a quella che, nell’immaginario collettivo, è rimasta sempre una zona tranquilla, lontana dai problemi atavici che tormentano altre aree del Paese. In questa seconda parte dell’intervista a Bonaventura (la prima potrete leggerla cliccando qui), egli ci parla della sua vita di collaboratore, delle carenze del sistema di protezione, dei tanti casi di falsi pentiti che anche lui ha contribuito a smascherare, delle minacce chiare di una ’ndrangheta che non dimentica chi la tradisce, dell’urgenza di avere una scorta o di essere trasferito fuori dall’Italia per la sicurezza sua e della sua famiglia, ma soprattutto di come, ancora una volta, sia la politica la vera assente, o almeno quella parte di politica che non concede (o non vuole concedere) gli strumenti necessari a tutelare e a combattere.

Le parole di Bonaventura, che leggerete in questa seconda parte, offrono lo spaccato di una situazione che non riguarda, probabilmente, una sola persona, ma un intero sistema di collaborazione che rischia di indebolirsi, diventare scoraggiante, inefficace, rischiando di trasformarsi in un grave ostacolo per la lotta al crimine organizzato, che, come Giovanni Falcone seppe intuire e dimostrare, ha assolutamente bisogno di collaboratori di giustizia, ossia di chi mette le proprie conoscenze a disposizione di chi vuole fermare le mafie.

 

Perché Lei sostiene che il programma di protezione non funziona come dovrebbe?

Il problema è che c’è una parte di politica che non vuol dare gli strumenti per il programma di protezione. La gente che lavora dentro il programma si occupa di quelle che sono le situazioni particolari, ma gli mancano gli strumenti giusti. Sai perchè ci sono pochi collaboratori della ’ndrangheta? Perché il programma di protezione non funziona a dovere e perché il collaboratore di ’ndrangheta ha due problemi fondamentali.

Quali?

Il primo consiste nel fatto che egli deve rompere il muro dell’omertà; l’altro, il più difficile, è il vincolo di sangue, perché la ’ndrangheta ha una struttura particolare, è una cupola nella cupola. Cioè, abbiamo una mafia già di per sé piramidale, che si viene a trovare in un ulteriore contesto gerarchico di stampo patriarcale. In poche parole, oltre agli affiliati devi affrontare anche i familiari a cui sei legato da un vincolo di sangue: tuo padre, i tuoi zii, i tuoi cugini. Dunque, è difficilissimo fare quella scelta, soprattutto con uno Stato che non ti protegge.

Quali sono le carenze che Lei ritiene più gravi?

Per prima cosa mancano strumenti per l’inserimento socio-lavorativo. Un elemento fondamentale soprattutto perché ti dà una identità e in questa società se tu non lavori non sei nessuno, non hai appunto alcuna identità. Inoltre, il lavoro ti fornisce la vera protezione, il vero anonimato.

Cioé?

Voglio dire che la gente, quando parla con te, ti chiede che cosa ci fa un calabrese qui a Termoli. Il fatto è che, generalmente, ci sono due tipi di persone che vengono dalla Calabria per stare qui: o i criminali che vengono per fare rapine o i collaboratori di giustizia. Ecco perché se lavorassi e potessi dire di essere impiegato in un’azienda, la gente smetterebbe di farmi domande e di scavare. E la copertura sarebbe salva.

Questo, immagino, sia importante anche per i figli di un collaboratore…

Esattamente, per tutta una serie di ragioni. Per i figli è importante poter rispondere serenamente, a una maestra o a chiunque altro, alla domanda “Che fa tuo padre?”. Oggi i miei figli sanno quasi tutto, perché in base all’età li abbiamo informati, abbiamo spiegato quel che è accaduto. Loro hanno capito e oggi guardano avanti come me. Tanto, qui, chi sono io lo hanno saputo tutto sin dal primo giorno.

Continuiamo a ragionare attorno a quel che non funziona nel programma di protezione…

Sì. Dunque, ci vorrebbero dei documenti validi, perché anche questo è importantissimo. Quello che ho posso usarlo solo per la regione in cui risiedo nel caso in cui mi fermi un poliziotto. Ma se devo comprare, ad esempio, una semplice sim card o aprire un conto corrente, quel documento non serve più. E devo andare con quello originale a 22 km di distanza, a Vasto, in Abruzzo. Come se la ’ndrangheta oltre i 22 km non esistesse più. Eppure, nel contratto di collaborazione è previsto un documento valido su tutto il territorio nazionale.

Ma non avete una scorta che vi accompagna?

I collaboratori non sono scortati. La scorta ce l’hai solo quando devi andare negli uffici giudiziari. Cioè in servizio. Lì non puoi morire. Che i colaboratori hanno la scorta sono solo chiacchiere. Il problema comunque è politico e al contempo culturale.

In che senso?

Nel senso che bisognerebbe smetterla con la storia dei pentiti che rimangono comunque degli assassini, perché così si fa il gioco di quella politica che può usare tale discorso per sollecitare le emozioni della società e screditarci, specialmente quando parliamo di loro o di qualcuno della pubblica amministrazione o di un imprenditore. Io in passato ho sbagliato, ma oggi ho scelto volontariamente di schierarmi con lo Stato e contro le mafie. A mio rischio.

Inserimento socio-economico e documento sarebbero sufficienti a migliorare il sistema di protezione?

No. Occorre stipulare quanto prima degli accordi bilaterali con gli altri stati. Dobbiamo ampliare il raggio di azione e metterci in testa che le mafie sono un fenomeno europeo, anzi mondiale. La potenza della ’ndrangheta non consiste semplicemente nella sua atrocità, ma soprattutto nel fatto che essa è un’organizzazione criminale radicata in tutti i continenti. Questo è il vero potere che permette di usare molteplici canali per il traffico di droga, per il riciclaggio, per gli affari in genere. Di fronte a ciò, non è pensabile che tu arrivi a Termoli, dove sono passati altri personaggi, e alla padrona di casa viene detto che sta affittando a un pentito, al preside della scuola che quegli alunni che si stanno iscrivendo sono i figli di un pentito, così come anche al dirigente di un’associazione sportiva, al medico curante e così via. In questa maniera l’anonimato lo fai crollare da subito. Aggiungici pure che non sai dire che lavoro fai, il problema dei documenti e altro ancora…Nella mia situazione credo si sia superato ogni limite.

Perché dice questo?

Perchè mi hanno portato a Termoli, a 200 km dai confini calabresi, ai confini con la sacra corona unita e con la camorra. Un accerchiamento, dal momento che, nelle mie rivelazioni, non parlo solo di ’ndrangheta, ma anche di cosa nostra, camorra e scu. E quindi mi devo guardare da tutti.

Quando era reggente ha avuto modo di collaborare anche con altre organizzazioni criminali?

Sì, nel 1990 la mia famiglia aveva rapporti con il clan del boss catanese Nitto Santapaola e io stesso, in particolare, per via del mio ruolo avevo avuto modo di collaborare con lui.

Lei ha rivelato la sua località segreta per denunciarne l’inadeguatezza. Perchè sostiene che Termoli sia pericolosa per Lei e per la sua famiglia?

Premettiamo che per un collaboratore come me, visto che in Italia le mafie sono radicate in ogni regione, non esiste posto sicuro in questa nazione, specialmente senza scorta. Ma parliamo di Termoli. Qui ho trovato altri collaboratori di giustizia, non solo siciliani, che sarebbe comunque grave, ma addirittura di ’ndrangheta. E alcuni di questi persino della mia stessa provincia, della mia stessa area. Qui viveva la collaboratrice di giustizia Lea Garofalo (perché secondo la legge è una collaboratrice, fermo restando che per me questa distinzione è superflua), quando il boss Cosco e i suoi compari le davano la caccia; qui ho trovato i fratelli Pucci, originari della mia zona; Felice Ferrazzo, un falso pentito, con il figlio Eugenio al suo seguito, che poi ha ripreso di nuovo il potere; poi il falso pentito Amodio, che avevo conosciuto nel carcere di Cosenza, nel ’94, perché eravamo nella stessa sezione; Piero Speranza, un altro appartenente alla ’ndrangheta che era a capo di una locale in Piemonte. Insomma, in questa provincia ho trovato molti collaboratori, o presunti tali (alcuni erano falsi pentiti e li ho denunciati). Io mi chiedo: l’ufficio Nop (Nucleo operativo di protezione) è sempre lo stesso e sa, dal primo momento, che io sono incompatibile con quest’area. Pertanto la direttrice del Nop avrebbe dovuto dire da subito a chi di dovere che questo luogo non era adatto. Purtroppo il sistema funziona così. Ecco perchè poi qualcuno ritratta, ecco perché tanti diventano falsi collaboratori, a vantaggio di chi cerca di screditare politicamente il ruolo del collaboratore di giustizia. Io sono un fesso a rischiare la vita dei miei figli. Se io avessi dovuto ragionare con la testa, mi sarei dovuto far corrompere e stare tranquillo.

Corrompere da chi?

Ho denunciato diverse persone, compreso un falso pentito, per tentativo di corruzione. Ho avuto proiettili dietro la porta di casa, ho subito delle minacce, persino da Carlo Cosco, l’assassino di Lea Garofalo. Ho denunciato anche elementi del Nop, perché gli stessi falsi pentiti che volevano corrompermi mi avevano detto che essi erano coinvolti. Il 22 novembre 2011 comincio a denunciare ciò alla procura di Catanzaro, sempre davanti al giudice Pier Paolo Bruni. Uno di loro mi telefona addirittura a casa, minacciando mia moglie, intimorendola, dicendo di aver saputo delle cose che non andavano bene. Poi richiama me e mi consiglia di ritrattare.

Che cosa Lei non doveva dire?

Nessuno ha interesse che tu parli di politica o di altro, ad esempio io parlo di quello che si muove dentro il mondo del calcio, della Lega Nord, ecc. Poi, a mio avviso, pago per le mie continue denunce sul fatto che in Lombardia ci sia la ’ndrangheta e sia fortissima. E dire che qualche ex ministro mi dava del fantasioso…

Ai magistrati però può dire, raccontare, come Lei ha fatto, tutto quel che sa. E le operazioni sono state eseguite, si è andati avanti, non crede?

Sì, ma comunque la legge non funziona, è fatta apposta perché tu non riesca a dire tutto quel che devi dire.

E perché mai?

Perché hai 180 giorni per poter raccontare tutto. Solo che questi 180 giorni non sono davvero tali, ma molti meno.

Vale a dire?

Mi spiego: tu hai 180 giorni per dire tutto, solo che poi, considerati anche i tempi tecnici dei magistrati, che hanno problemi grossi quanto i nostri, questi giorni si riducono a 14-15 verbali fatti a macchia di leopardo. Praticamente, se vai a leggerli, tutto si riduce a circa 48 ore di verbalizzazione, durante le quali si ripetono le cose dette inizialmente. Cominci dagli omicidi e, sulla base di queste dichiarazioni, fai l’interrogatorio di chiarimento. I magistrati, cioè, ti chiedono chiarimenti sulle tue rivelazioni, sui nomi di chi ha partecipato alle azioni, le motivazioni, ecc.. Ecco perché credo che la legge sui collaboratori sia una barzelletta. Ed è una delle ragioni per cui poi ci sono i falsi pentiti,. Dinnanzi a ciò, se uno di loro viene abbordato per essere convinto a ritrattare non sempre riesce a dire di no, a rifiutare, sapendo quel che rischia. A me è successo e ho rifiutato, ma non si può pretendere che lo facciano tutti. Infatti, Lo Giudice, ad esempio, e tanti altri hanno ritrattato.

Lei crede davvero che sia per queste disfunzioni che uno preferisce ritrattare e diventare un falso pentito?

Precisiamo che alcuni sono falsi sin dall’inizio. Ma ci sono altri che, invece, vengono “costretti” dalle situazioni. Ti prospettano un milione di euro all’anno, la sistemazione dei processi e, soprattutto, il “manto della misericordia”.

Sarebbe?

Sarebbe che nessuno ti può toccare, come se sei di nuovo dentro la ’ndrangheta, perchè sei prezioso per la ’ndrangheta. Ti puoi salvare. Se tu rifiuti e denunci, invece, non rischi solo tu, ma anche i tuoi figli. Io ho rifiutato, fidandomi dello Stato. E oggi i miei figli stanno nello stesso marciapiede della gente che ho denunciato, anche qua, tra collusi, falsi pentiti, ’ndranghetisti e mafiosi vari. In sintesi, sono lasciati al macello.

Lei ultimamente è finito sotto i riflettori dei media sia per alcune sue rivelazioni, ma anche per le proteste circa il suo stato di scarsa protezione. Questa diffusa attenzione la sta aiutando nella sua battaglia?

Io so solo che sono stato costretto a una protesta ufficiale, a metterci la faccia ed espormi. Dopo cinque anni e tantissime denunce mi trovo ancora in questo vortice di ingiustizia, in questo labirinto infernale. Ho pensato che rivolgendomi alla stampa, con due o tre articoli qualcosa si sarebbe smosso, sarebbe emerso lo scandalo e si sarebbe risolto tutto. Per me è stata una strategia, anche per tenere accesi i riflettori ed evitare che chi ama agire a fari spenti possa farlo con facilità. Per dire anche a ’ndranghetisti e mafiosi: “Se mi ammazzate, io ho già dichiarato tutto, è tutto agli atti, quindi i vostri avvocati non riusciranno a farmi screditare. Se mi ammazzate, anzi, fornite il riscontro a quello che ho detto”. In pratica, ho dovuto rispolverare le mie vecchie nozioni di ’ndranghetista, tornare a pensare come loro per capire in che modo potevo difendermi da loro, quali strategie adottare. Naturalmente non esistono ricette precise e devo abituarmi a rinunce, sacrifici, sofferenze, a non uscire da casa, se non in casi di estrema necessità.

La cosa che colpisce è che né Lei né i suoi familiari abbiate qualcuno che vi accompagni e protegga quando uscite di casa?

Sembra assurdo, ma è la verità. Non posso andare a prendere i miei figli a scuola, non ho la gioia di abbracciare mia figlia quando esce da scuola, di portarli al cinema, a mangiare una pizza, niente. Non ho alcuna protezione. A casa mia puoi salire e scendere quando vuoi e come vuoi, nessuno dirà niente. Coloro che mi dovrebbero proteggere li vedo solo pochi minuti, una volta a settimana, quando mi portano una parte di posta, perché l’altra me la consegna il postino, e raramente qualche verbale di comunicazione, visto che il grosso me lo portano i Carabinieri del luogo.

Non potrebbero consegnarle tutto direttamente loro?

Non lo so, ma a questo punto, paradossalmente, potrebbe consegnarmi tutto anche il postino (già pagato dallo Stato per questo). Di certo questi soldi sarebbe meglio darli a sociologi, educatori, psicologi, a tutti coloro che dovrebbero rieducarti, capendo che tu vieni da un’altra cultura e che non si può prendere una belva feroce e scaraventarla sulla pelle della società, così come se niente fosse. E se io avessi ripreso ad ammazzare o avessi fatto il falso pentito o trafficato armi come hanno fatto tanti altri? Bisogna agire non solo per la sicurezza dei collaboratori, ma anche per il bene della società. E così non va bene. Sono arrivato al punto di non andare a prendere i miei figli a scuola non solo per responsabilità verso di loro ma anche verso gli altri bambini. Perché penso che se mi ammazzano, magari un proiettile vagante può colpire uno di loro. Arrivi pure a fare questi ragionamenti in queste condizioni.

Ma anche gli altri collaboratori non hanno scorta? O è una cosa accaduta solo a Lei?

Ripeto che abbiamo la scorta solo quando svolgiamo attività giudiziaria, soltanto in servizio. Se trovate qualche collaboratore che ha la scorta ditemelo, perché allora vorrà dire che quello che sta succedendo a me è ancora più grave.

Come si spiega questa cosa, Bonaventura?

Penso che in Italia si sia passati da un eccesso all’altro. Prima ai collaboratori davano tutto: ville, milioni di euro, ecc. Adesso è successo il contrario, perché oltre ai collaboratori sinceri ci sono stati anche quelli che ci hanno speculato. E allora, come soluzione, si pensa di distruggere tutto. In Italia è così.

La ’ndrangheta non dimentica, questo si sa. Qual è stato il messaggio più evidente che le hanno fatto arrivare?

Voglio raccontare una cosa. Un giorno il giornalista Giovanni Tizian è venuto a casa mia. Viene con la scorta. Sta qui con me, mi intervista, parliamo, mentre la sua scorta rimane sotto casa mia e aspetta per una giornata intera. Quegli uomini armati, in teoria, potevano essere killer mafiosi. Nessuno ha detto niente. Qualche giorno dopo l’uscita del pezzo di Tizian, il 22 giugno 2012, mia moglie trova nella posta un proiettile con un’immaginetta. Nel gergo ’ndranghetistico, quando si manda una cosa simile, si vuol dire che il proiettile per te è pronto e che loro non hanno più niente da dirti. Ti resta solo di pregare (ecco il perché del santino). Da allora è passato un anno e mezzo, non mi arrivano più intimidazioni, perché non sono più una persona da intimorire. Hanno già deciso. Non si sa quando, come, se si dovrà scegliere il momento giusto, ma ormai per me il finale è deciso.

A meno che non la conducano lontano da Termoli, al sicuro.

Per forza. Vivo in un mandamento occulto, lo dico da quando denuncio tutto. Da qui inizia la storia di Ciancimino senior, che da qui prende i collegamenti con i servizi. Qui Angelo Izzo tortura e uccide barbaramente e seppellisce la moglie e la figlia del pentito Giovanni Maiorano, la cui protezione era affidata a questo stesso ufficio Nop. Lea Garofalo subisce il primo tentativo di omicidio a Campobasso. Qui viene trovato l’arsenale del falso pentito Felice Ferrazzo. Nel carcere di Campobasso alcuni si riuniscono per calunniare un signore come Enzo Tortora. Sempre a Campobasso, i falsi pentiti Di Dieco e Massimo Napoletano agiscono per screditare il collaboratore Antonino Lo Giudice. E sono ancora dei falsi pentiti (insieme ad alcuni importanti esponenti della ‘ndrangheta) a cercare di corrompere me, per screditare Lo Giudice, per accusare alcuni politici e per delegittimare Giulio Cavalli e alcuni magistrati. Non riuscendoci, tentano di ammazzarmi almeno per due volte, una ampiamente riscontrata. Tutto quello che sto dicendo è riscontrabile. Qui ci sono discariche di rifiuti radioattivi, ci sono stati incendi, ma nessuno dice niente, continuano a sostenere che sia una provincia tranquilla. Cosa deve succedere ancora? Questo è uno dei posti peggiori in cui potevano portarmi. Lo hanno fatto per controllarmi, istigarmi al suicidio o a ritrattare o farmi sparire. Perché solitamente i pentiti non si cerca di ammazzarli in pubblico, ma di adescarli in una trappola. La strategia migliore è di farli sparire o farli trovare impiccati, suicidi. Lo dico da ex ndranghetista: sai quanta gente muore in Italia per suicidi, incidenti stradali, overdose che in realtà sono omicidi?

Lei ha protestato ufficialmente, ha chiesto ufficialmente di essere spostato. Nessuna risposta?

È accaduta una cosa che non so spiegarmi. Nel febbraio 2012 mi ascolta la procura di Campobasso, successivamente vengo sentito da altre procure (quella di L’Aquila per 2 volte, poi quella di Bologna presso la Direzione Nazionale Antimafia davanti al dr. Pennisi, quella di Reggio Calabria ed altre, fino ad arrivare, qualche settimana fa, alla DIA di Roma ad incontrare il procuratore aggiunto di Catanzaro, Borrelli). Ma quella di Campobasso non mi chiama più. E pensare che la competenza per quel che riguarda questa mia situazione è proprio di Campobasso! Io dico: mi vuoi contestare? Oppure mi dai credito e andare avanti con le indagini riascoltandomi? Chiamami e ascoltami! La verità è che Bonaventura non deve creare un precedente, né riguardo al fatto di dargli la scorta né riguardo ad un altro fatto importante.

Quale?

Io qui ho ascoltato delle cose, subito delle cose e le ho denunciate. Quindi sono diventato un testimone. Io lamento che mi venga quantomeno riconosciuto lo status di testimone di giustizia, cosicché mi venga assegnata una tutela. Il 22 agosto 2012, ad un mese di distanza dalla richiesta presentata dal mio avvocato alla procura de L’Aquila, alla dott.ssa Picardi, mi viene detto, dalla Commissione centrale di Roma, che erano stati chiesti i pareri alla DDA di Catanzaro e alla Direzione nazionale antimafia. Da allora, nonostante le innumerevoli richieste mie e del mio legale, è passato un anno e mezzo e non mi hanno fatto ancora sapere quali siano i pareri. Nessuna risposta ad alcuna delle richieste: né a quella di avere la scorta né a quella di avere lo status di testimone di giustizia. Non è giusto.Vorrei almeno che mi si rispondesse, mi si dicesse che in base all’articolo tot la legge non lo prevede. Così dovrebbe essere. E invece trovo solo silenzio.

Qual è la situazione attualmente?

Allo stato attuale siamo così: a giugno scorso mi convoca il direttore del servizio centrale di protezione, il gen. Pascali, che mi sembra una brava persona. Dopo anni di lotta, egli concorda sul fatto che in Italia per me un posto sicuro non esista. Ricevo dopo una settimana un verbale di comunicazione dove mi si dice quali sono le località nelle quali posso andare all’estero e che ci sono accordi bilaterali ben avviati con diverse nazioni, e con alcune di queste, ovviamente non dico quali per riservatezza, sono un po’ più avviati. Mi hanno detto che forse entro l’anno si potrebbe concludere. Finalmente mi viene data ragione.

E quindi?

E quindi mi chiedo perché, se si riconosce che io in qualsiasi parte d’Italia sono in pericolo, non si procede subito con la sigla di questo accordo bilaterale? Oppue, nel frattempo, non si decidono a mettermi una scorta? Per loro la cosa si farà entro fine anno, se sarò ancora vivo o se i miei figli saranno ancora vivi. Vedi come ti portano a ritrattare o ad ammazzarti? Questa è una istigazione, un reato. Cosa devo dire di più? Il viceministro Bubbico non risponde. L’onorevole Farina (Sel), alla Camera, ha detto a Bubbico che il fatto che si doveva dare la scorta a Giulio Cavalli lo dava per scontato, ma soprattutto voleva sapere qualcosa in merito alla mia situazione. Giulio attualmente è protetto, ma ho paura che presto gliela toglieranno quella scorta, perché è solo un modo per far tenere la bocca chiusa a chi giustamente protestava e si preoccupava per lui. Come se dicessero: “Volete la scorta per Cavalli? Ok, eccovela. Ora tappatevi la bocca sul resto!”. E tra l’altro a Giulio hanno dato una scorta assurda, perché non ha una macchina blindata. Io dico: una persona è andata sotto casa a nascondere la pistola per ammazzarlo, ci sono due collaboratori che raccontano il progetto di morte della ‘ndrangheta e loro non gli danno nemmeno la macchina blindata? La stampa deve venire a verificare cosa accade qui. Io sono pronto ad essere screditato se non fosse vero ciò che dico e e sono pronto a chiedere a chiunque di pretendere a gran voce il mio arresto se quel che ho detto non è vero.

Un appello che rivolge solo alla stampa?

No, lo facciano anche le associazioni antimafia, perché è inutile piangere, dispiacersi il giorno dopo. Vorrei che in questo Paese si facesse l’antimafia del giorno prima, non quella della retorica e delle commemorazioni. Bisogna andare dalle persone prima. Proteggere un collaboratore di giustizia è far sì che non succeda un altro dramma a un’altra persona, un dramma profondo. Si chiede tanto la verità, ma se non funziona il programma di protezione, a quale verità vogliamo ambire? Il fatto che oggi io sia qua, da questa parte, è un successo della società, della giustizia. Oggi Bonaventura non ammazza, i suoi figli non ammazzeranno e non procreeranno assassini. Se io ho il dolore nel cuore dovrei sentirmi sollevato da una scelta simile e impegnarmi affinché quella scelta non venga sprecata. Penso a Giovanni Tizian, il quale si impegna, si applica tanto in questo ambito, perché il dolore lo ha colpito così da vicino, con l’omicidio del padre, che non vorrebbe mai che un altro crescesse senza papà, con quell’identico dolore. Io oggi devo guardarmi non solo dalle pistole, ma anche da altro. Perché non si ammazza solo con le pistole, ma anche in mille altri modi. Sai perché io non lascio mai sola casa mia? Perché ho il timore che in mia assenza possano mettermi qualcosa in casa, droga o qualche arma. Non mi fido di nessuno. Per questo da sette anni non lascio mai sola questa casa.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org