Dopo tanti anni colmi di silenzi, omertà e timori, Bagheria si ribella al pizzo e alla mafia e lo fa nell’unico modo possibile: denunciando. Nel piccolo centro alle porte di Palermo, infatti, ben 36 imprenditori hanno deciso di rivelare, una volta per tutte, i ricatti e i soprusi commessi dai clan e dai boss mafiosi che nel corso degli anni si sono succeduti nella gestione del racket. Secondo le indagini svolte dalla Dda e dal Nucleo investigativo di Palermo, le cosche avrebbero colpito tutti gli imprenditori del centro e delle aree limitrofe, senza risparmiare alcun tipo di commercio. Sebbene il campo più importante fosse quello dell’edilizia, le inchieste hanno scoperto come a essere colpiti fossero praticamente tutti: dai fruttivendoli ai gestori di centri scommesse, ma anche negozi di abbigliamento, mobili e persino i bar. Insomma, un vero e proprio monopolio territoriale che è andato avanti e ha ingrossato le tasche delle famiglie mafiose per almeno vent’anni.

Finalmente, il silenzio si è trasformato in un rumore molto forte e udibile, dato che le denunce hanno portato all’arresto di 22 esponenti di diversi clan, 5 dei quali erano ancora a piede libero. Al di là dei numeri (comunque importanti), quel che deve far riflettere è l’atto di coraggio e di determinazione che i cittadini di Bagheria hanno avuto nei confronti di chi ha deciso le sorti delle proprie vite per troppo tempo. Tra le storie raccolte dagli inquirenti, sono tante quelle di imprenditori finiti sul lastrico e costretti a chiudere le proprie attività a causa delle pressanti e continue richieste di denaro. Una consuetudine, quella del pizzo, che è ormai ben radicata dappertutto e che difficilmente si riesce a estirpare.

A tal proposito, fanno clamore le parole rilasciate da Gianluca Calì, titolare di un concessionario d’auto, intervistato qualche giorno fa dalll’emittente “Telejato”. L’imprenditore (che fu uno dei primi a denunciare il racket a Bagheria) ha affermato di aver subito numerose pressioni da parte dei colleghi commercianti nel corso degli anni e di essere stato da essi definito persino “mitomane”, poiché la mafia, a loro dire, non esisterebbe e non sarebbe mai esistita da quelle parti. “Non ho mai pagato il pizzo e non ho mai avuto tentennamenti nel denunciare – ha detto Calì – nonostante le accuse da parte della gente del posto di volermi fare pubblicità”. Per questo motivo, l’esito dell’inchiesta “Reset 2” lo ha reso felice e gli ha fornito l’occasione di ringraziare le forze dell’ordine, ricordando, tra l’altro, che lo Stato dovrà essere vicino da subito “a chi denuncia, anche quando finirà questo clamore mediatico”.

È chiaro, dunque, che la decisione di ribellarsi a tutto ciò richiede grande forza e lo sforzo a sostegno di essa deve protrarsi e non svanire quando le telecamere saranno spente. Il rischio che tutto ciò rimanga un caso isolato è sempre in agguato, ma di sicuro l’impatto culturale e sociale (ricordiamoci che tutto ciò è accaduto in uno dei luoghi con il più alto tasso di presenza mafiosa) ha una portata non indifferente. In un’area ad alta densità mafiosa la gente si ribella al pizzo e ai soprusi dei clan: sembra la trama di un racconto di fantascienza, ma, per fortuna, si tratta di una meravigliosa realtà. Una realtà che, se sostenuta adeguatamente dallo Stato, potrà solo migliorare e tornare a essere più libera.

Giovambattista Dato -ilmegafono.org