C’è giornalismo e giornalismo. Ci sono notizie che hanno il rango necessario per esser definite tali e poi ce ne sono altre che appartengono alla dimensione fangosa della falsità, della sofisticazione di una realtà che viene sventrata, deformata ed esposta al volgare appetito di chi ha bisogno, per una volta, di puntare il dito su altri per cercare di alleggerire il peso delle proprie vergogne e dei propri scandali. Quando si realizza il connubio giornalismo/falsificazione non è un caso che di mezzo ci sia quasi sempre uno dei due quotidiani che hanno fedelmente servito il potere per quasi un ventennio (e continuano ancora a farlo): Libero e Il Giornale. Questa volta è il turno di Libero, il quotidiano di Belpietro, colui che, nel 2010, urlò all’Italia intera di essere stato oggetto di un attentato che, in realtà, come ha sancito la procura di Milano con l’archiviazione dell’inchiesta (aprile 2012), non vi fu.

Bersaglio del fango schizzato dalle “ardite” penne del quotidiano, qualche giorno fa, è stato Giulio Cavalli, uno che le minacce, quelle vere, le subisce da anni, per il suo impegno, prima come autore e come attore, dopo anche come consigliere regionale. La diffamazione è stata costruita ad arte, nel tentativo di screditare chi ha fatto opposizione al sistema Formigoni e di far passare il concetto, utilissimo in questa fase di accesa campagna elettorale, che i politici sono tutti uguali. Un modo antico per deresponsabilizzare quelli che rubano davvero, perché il loro malcostume risalterebbe meno e quindi varrebbe meno. “Lo fanno tutti, in fondo”: l’obiettivo e far sì che l’elettore arrivi a dire questo.

Ma c’è un limite che nessuna strategia può travalicare, al di là dei casi specifici, che valgono per chiunque, a destra come a sinistra, e a cui bisogna comunque concedere la possibilità di chiarire e spiegare. Quel limite è rappresentato dalla verità. Una notizia pubblicata in prima come in ultima pagina deve contenere un minimo di verità, anche una briciola, un pizzico, avere quantomeno un fondamento concreto. È la base del giornalismo. Ma, ripeto, c’è giornalismo e giornalismo. Giulio Cavalli si è trovato in mezzo alle frecce sudice di un giornalismo mistificatore e moralmente infimo. Il consigliere di Sel, l’uomo che ha sfidato la ‘ndrangheta a Milano e in Lombardia, una mattina di gennaio (il 31) ha trovato la sua foto in prima pagina, messo in mezzo a quelli che il quotidiano di Belpietro definisce “gli impresentabili”, ossia i consiglieri indagati per il caso delle spese folli in Regione.

Con un piccolo particolare, giusto una minuzia: Giulio Cavalli non è indagato. I suoi conti sono a posto, nessuna spesa fuori dall’attività istituzionale, nessun rilievo fatto dalla magistratura. E allora perché metterlo lì, sbatterlo in prima pagina, metterlo nel mucchio? Una foto, a corredo di un articolo nel quale non si fa mai il suo nome, perché non si può fare per il semplice fatto che è estraneo alla vicenda. Allora a chi fa comodo che, in campagna elettorale, uno dei personaggi più importanti dell’opposizione a Formigoni, il consigliere-autore-attore che denuncia, in teatro come in consiglio, le connivenze, le sporcizie, gli abbracci letali tra ‘ndrangheta e potere politico, venga delegittimato, infamato, colpito? Al soldo di chi il clan di Belpietro sta lavorando? Il Pdl, il centro-destra nel suo insieme o qualcos’altro?

Giulio ha diffidato Libero, chiedendo la rettifica (ovviamente sempre in prima pagina). Qualora non arrivasse, scatterà la querela. Sui social network, la gente ha dimostrato di non essere cascata nel tranello. Cavalli ha fatto della trasparenza e della condotta ineccepibile il corredo del suo agire quotidiano. I cittadini che ne hanno apprezzato l’impegno lo sanno. Qualcuno ha scritto di evitare di sporgere querela, che non ne vale la pena. Da giornalista, che non ama per niente l’istituto della querela, devo ammettere che, però, questa volta forse è necessaria, quasi educativa. Perché non si può non reagire all’ennesima delegittimazione organizzata, al danno, al fango spruzzato con tanta sfacciataggine e tracotanza, magari perché si pensa di godere di un’assoluta impunità.

Bisogna contrastare chi usa la professione giornalistica in modo improprio, perché ne va del prestigio e della credibilità dell’intera categoria. E soprattutto è un fatto di giustizia. Il danno è ingente e qualcuno dovrà pagare (non con la reclusione ovviamente, qui non si auspica certo un altro caso Sallusti). Perché la libertà di stampa è preziosa. Ma la violazione artificiosa della verità è una perversione da estirpare. Si può essere liberi di esprimersi, ma non di diffamare.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org